La cognizione del dolore
IL 27 GENNAIO, LA LEGGE E L’ABUSO DELLA MEMORIA
di Carlo Saletti [*]
I.
Nel corso dell’ultimo trentennio, si è diffusa in Europa la convinzione che la Shoah sia il maggiore crimine di massa della nostra storia. La distruzione dell’ebraismo per mano del nazismo e dei governi che con esso hanno collaborato, messa in atto in Germania dal 1933 e cui solo la sconfitta dei fascismi europei, nel 1945, ha potuto porre termine, appare alle nostre coscienze come il crimine politico di ampiezza assoluta. Auschwitz, vasta rete concentrazionaria e sito di annientamento seriale dove scomparve 1/6 del totale degli ebrei assassinati nel corso dei dodici anni di esistenza del Terzo Reich, ne è il simbolo. Una simile consapevolezza è il prodotto dello sforzo comune intrapreso dai Paesi del nostro continente per definire una memoria europea fondativa, all’indomani della fine della guerra fredda in un periodo di riconfigurazione tanto dei suoi confini geografici, quanto dei suoi rapporti interstatuali.
Nessun altro avvenimento della nostra storia come la persecuzione subita dall’ebraismo negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso ha provocato un interesse così diffuso e persistente e, con esso, la necessità di comprenderne le cause. A distanza di decenni, possiamo meglio valutare l’ampiezza assunta da una tale impresa e l’investimento che essa ha comportato, di cui la giornata odierna – Giorno della Memoria, istituito il 20 luglio 2000 con la legge numero 211 – è uno dei frutti. Recentemente, lo storico Michele Sarfatti ha osservato che “la legge si è radicata, costruendosi uno spazio autonomo rispetto alle feste civili nazionali e marcando una vitalità diffusa, superiore a quella di molti giorni memoriali successivamente istituiti”. È innegabile che la memoria della Shoah occupi una posizione di assoluto rilievo nel discorso pubblico.
La memoria della Shoah è, in quanto oggetto culturale, una costruzione. Complessa e articolata: la via che ha portato alla eliminazione fisica degli ebrei d’Europa è tortuosa –intendo dire che nel 1933 anche il più radicale degli antisemiti in Germania avrebbe faticato a immaginare la piega che avrebbero preso la lotta al giudaismo nel decennio successivo.
La legge italiana fa menzione, oltre che ai perseguitati per motivi di razza, agli altri due principali gruppi a cui, dal settembre 1943, le forze nazi-fasciste mossero guerra: oppositori politici e militari che si erano schierati contro l’alleato tedesco (IMI). La deportazione dal nostro paese e dai territori già sotto controllo militare italiano, che ha riguardato l’insieme di queste categorie in un arco temporale di un anno e mezzo, ha coinvolto centinaia di migliaia di persone.
Il Giorno della Memoria è riconosciuto nel 27 gennaio, “data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz”. Baricentro della legge è “lo sterminio del popolo ebraico”, fase culminante della campagna antiebraica che aveva rappresentato per Hitler e la sua corte criminale sin dai primi mesi seguiti alla presa del potere nel gennaio del 1933 un obiettivo primario da conseguire, dal momento che allontanare gli ebrei dal mondo ariano era avvertita come una ineluttabile necessità. Così la intendeva Heinrich Himmler, quando affermava rivolgendosi ai generali delle SS riuniti a Posen, il 4 ottobre 1943, che l’eliminazione degli ebrei era stata “una pagina gloriosa nella nostra storia, che non è mai stata scritta né sarà mai più scritta in futuro” (Dies ist ein niemals geschriebenes und niemals zu schreibendes Ruhmesblatt unserer Geschichte). Va fatto notare che a quell’altezza di tempo più del 75 % del totale delle vittime ebraiche non era più al mondo.
“Così la intendeva Heinrich Himmler … ‘una pagina gloriosa nella nostra storia, che non è mai stata scritta né sarà mai più scritta in futuro’ “
La situazione prodottasi in Germania a seguito della sconfitta del novembre 1918 e gli avvenimenti seguiti allo sconvolgimento profondo dell’ordine europeo che si era determinato furono il brodo di coltura in cui il risentimento – potente e funesta passione che contagiò il popolo tedesco – poté prosperare, alimentato dai seminatori d’odio, che seppero scatenare le pulsioni profonde presenti nell’Europa del tempo. Le forze che si liberarono nella società tedesca fornirono il propellente necessario per quella che divenne la più vasta campagna antisemita che l’Europa conobbe. Furono poi le circostanze e la piega che presero gli avvenimenti, le risposte interne ed estere alle politiche di violenza inaugurate all’indomani della presa di potere del partito nazionalsocialista a determinare la direzione, la virulenza e la progressione nei tempi e nei modi della persecuzione – in una parola, la sua dinamica. Un chiaro esempio di come gli eventi potessero determinare salti qualitativi nella politica antisemita è fornito dal ferimento mortale di un funzionario dell’ambasciata tedesca di Parigi da parte di Herschel Grynszpan, un giovane ebreo polacco rifugiato in Francia, il 7 novembre 1938. La morte del diplomatico, sopraggiunta due giorni più tardi offrì il pretesto per scatenare un’ondata di violenza – a Monaco, in quelle stesse ore, i maggiorenti del partito nazista festeggiavano l’anniversario del putsch del 1923. Conosciuta con il nome di Kristallnacht, il furore popolare orchestrato e fomentato dagli attivisti del partito portò alla distruzione di decine di sinagoghe su tutto il territorio tedesco e all’internamento di decine di migliaia d’israeliti in campi di concentramento, oltre a fornire al plenipotenziario per il piano quadriennale Hermann Göring il pretesto per accelerare il processo di arianizzazione delle proprietà ebraiche.
Il genocidio – nozione giuridica e fattispecie penale formulata dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin e che avrebbero avuto applicazione solo nel dopoguerra – segnò il punto di svolta in questo processo di radicalizzazione. Quando, con l’occupazione della Polonia, nel settembre 1939, lo scoppio del conflitto armato e la successiva invasione della Unione Sovietica, agli inizi dell’estate del 1941, una parte cospicua dell’Ostjudentum (l’ebraismo orientale) cadde sotto controllo nazista, la Germania si trovò a essere il Paese del mondo con la più consistente popolazione ebraica. Una situazione paradossale, evidentemente, che metteva in luce gli esiti dell’interferenza prodottasi tra la politica razziale e la politica imperialista del Reich, che archiviava definitivamente la soluzione sino ad allora tentata, quella dell’emigrazione forzata. Lo stato di guerra, d’altro canto, aveva creato il presupposto perché un’ulteriore soglia venisse varcata. I decisori poterono realisticamente pensare che l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di assassinare sino all’ultimo ebreo caduto nelle mani loro e, per una sorta di osmosi ideologica, dei loro alleati. La soluzione finale assunse, a quel punto, la natura di un progetto di estinzione. Restlose Vernichtung, come ebbe a definirla Theodor Dannecker, ufficiale delle SS tra i principali responsabili della deportazione ebraica dalla Francia verso i centri di sterminio dell’Europa Orientale: annientamento complessivo e al tempo stesso annientamento senza resti.
Alla distruzione dell’ebraismo europeo (è questo il titolo del capolavoro storiografico di Raul Hilberg) contribuirono tanto la cultura quanto la barbarie, la cui alleanza è indispensabili perché crimini di massa possano toccare la magnitudo di un genocidio. L’assassinio deliberato e sistematico di milioni di esseri umani su scala continentale rappresentava, in fin dei conti, un’“impresa” mai tentata prima.
“Alla distruzione dell’ebraismo europeo … contribuirono tanto la cultura quanto la barbarie…”
Se furono i tecnocrati a pensare alla sua logistica, il dirty job fu svolto nei territori più lontani dell’impero da forze paramilitari e da unità appartenenti alle forze armate. La distruzione fisica, che a Berlino aveva assunto i tratti di un asettico e ordinato percorso burocratic0, nei siti di sterminio cedeva il passo a una violenza parossistica, spesso accompagnata dall’improvvisazione: l’assassinio sistematico di intere comunità si risolveva, allora, in caos e inferno. Del resto, fu l’ufficiale medico delle SS Johann Paul Kremer, agli inizi di settembre del 1942, a notare nel suo diario dopo aver assistito per la prima volta a un’azione speciale (gasazione) a Birkenau come “al confronto l’Inferno di Dante sembra quasi una commedia” (Im Vergleich dazu ist Dantes Inferno fast eine Komödie).
In questo senso, la Shoah è stata, in buona parte, un enorme e rovinoso bricolage criminale.
II.
Se in questi anni si è accresciuta significativamente la ricerca storiografica e, con essa, l’apprendimento, l’approfondimento, la consapevolezza di questo nostro passato, non va trascurato che, parallelamente, si è sviluppato un uso distorto e strumentale della memoria della Shoah. La cosa non deve sorprenderci, anche se a un primo sguardo potrebbe apparire paradossale – quanto più è alta l’attenzione verso il genocidio ebraico, più la sua memoria e i fatti ai quali rimanda sono equivocati. Evocare le sofferenze patite dagli ebrei, entrate nel circuito delle memorie pubbliche, troppo spesso presentate come “pietra angolare della nostra moralità” (Guri Schwarz), è divenuto il modo più facile per alludere a una condizione di oppressione reale o presunta.
Evocare le sofferenze patite dagli ebrei, entrate nel circuito delle memorie pubbliche … è divenuto il modo più facile per alludere a una condizione di oppressione reale o presunta.
Tale abuso si fonda su un processo di banalizzazione della verità storica. Si tratta di una postura culturale che non nega gli avvenimenti (banalizzare presuppone di credere nella fattualità), ma li sottrae alla propria cornice e li filtra attraverso elementi emozionali.
Chi banalizza rinuncia al principio di distinzione, indispensabile per comparare e stabilire differenze ed eventuali somiglianze tra eventi e situazione storiche, tanto più se distanti tra loro. Ai banalizzatori non interessa la spiegazione storica – essi si limitano a essenzializzare la catena fattuale che rende singolare ogni fenomeno sociale. Attraverso il ricorso fraudolento all’analogia, utilizzando singoli fotogrammi del passato, che nel loro discorso figurano come cliché o immagini stereotipate, i banalizzatori utilizzano la storia e le sue memorie come un arma sentimentale per i propri fini immediati. In ciò, essi condividono con i negazionisti una stessa “aria di famiglia”. Entrambe, banalizzazione e negazionismo, sono forme del pensiero potenzialmente tossiche da cui occorre difendersi, tanto più quanto i tempi si presentano incerti e travagliati. Non a caso, i mesi in cui viviamo offrono esempi quotidiani di un tale abuso.
“Entrambe, banalizzazione e negazionismo, sono forme del pensiero potenzialmente tossiche da cui occorre difendersi…”
Hanno fatto scalpore le immagini della manifestazione dei No-pass tenuta a Novara il 30 ottobre dello scorso anno nel corso della quale alcuni dei partecipanti si sono rappresentati come analoghi degli ebrei perseguitati, ponendo in stretta analogia le disposizioni anti-pandemiche volute dal governo con le politiche di esclusione dai più elementari diritti di cittadinanza che nella Germania nazionalsocialista avevano colpito i tedeschi di confessione ebraica. Leggo da un quotidiano la cronaca di quella giornata: “Un centinaio di persone, sotto i palazzi del comune, della provincia e della prefettura esponevano cartelli con scritto «Noi come gli ebrei ad Auschwitz». Sulle pettorine alcuni manifestanti di Novara avevano attaccato dei numeri. Altri invece dei cartelli con richiami alla «libertà» negata dall’ultimo decreto del governo. Tutti erano aggrappati a un finto filo spinato” (Domani, 1 novembre 2021).
L’asserzione “noi come gli ebrei” attraverso la quale i manifestanti assegnavano a se stessi il ruolo di vittime implicava denunciare che il governo, autore dei provvedimenti, avrebbe diversi tratti in comune con il regime nazionalsocialista, cui si deve la promulgazione della famigerata legislazione antisemite (tra tutte, le leggi di Norimberga del 1935).
Il filo spinato e l’uniforme lacera dei deportati, i potenti elementi evocativi di un immaginario entrato nella cultura pop, vengono trivializzati, per dichiarare all’opinione pubblica che oggi, per mano di un regime denunciato come liberticida, la stessa discriminazione che ha portato ad Auschwitz viene fatta rivivere a chi non accetta le misure di contenimento della pandemia. Forse è superfluo aggiungere che un fatto del genere deve essere immediatamente denunciato, con le parole di Noemi di Segni, presidentessa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, come “un abuso e un’offesa alla memoria quale patrimonio comune di una società” (ivi).
Desta ancora più sconcerto e preoccupazione quando sono intellettuali ad abusare della memoria e della storia. Uno dei più influenti filosofi italiani, da mesi sostiene l’analogia che esisterebbe tra le disposizioni in materia di lotta alla pandemia assunte dal nostro governo e le leggi razziali varate in Germania e in Italia negli anni Trenta. Il 16 luglio 2021, così scriveva: “La tessere verde costituisce coloro che ne sono privi in portatori di una stella gialla virtuale. […]. Che queste discriminazioni fattuali siano supportate dalla legge è una barbarie che non possiamo accettare” (Cittadini di seconda classe). Concetto che ha ribadito solennemente il 7 ottobre successivo, nel corso dell’audizione in Commissione Affari costituzionali del Senato, chiedendosi “come è possibile accettare che, per la prima volta nella Storia d’Italia dopo le leggi fasciste del 1938 sui cittadini non ariani, vengano creati dei cittadini di seconda classe, che subiscono restrizioni che dal punto di vista strettamente giuridico – sottolineo giuridico – non hanno nulla da invidiare a quelle previste in quelle infauste leggi?”
Enunciando una visione strettamente formalista del diritto, il nostro pensatore equipara sotto il profilo giuridico fenomeni abissalmente lontani, la cui pretesa di comparabilità, a tacere d’altro, è viziata alla radice dalla diversa ratio delle leggi. Ma davvero è convinto che gli si possa credere? Che si possa trovare corretto l’argomento secondo il quale il green-pass avrebbe la stessa qualità giuridica degli attestati di appartenenza alla razza ebraica, che condannavano i loro possessori alla marginalizzazione, dopo essere stati privati dei propri beni e dei diritti? L’insistenza con cui egli ricorre nei suoi frequenti interventi contra barbaros all’analogia tra le traversie attuali e il buio degli anni Trenta non lascia dubbi al riguardo e a poco servirebbe ricordargli che la “barbarie” nella quale egli si è convinto sia sprofondato il nostro paese ha introdotto un meccanismo reversibile (la vaccinazione è sempre un’opzione a disposizione), mentre l’appartenenza alla razza ebraica, che a partire dal 19 settembre 1941 dovette essere dichiarata pubblicamente su tutto il territorio del Reich attraverso l’esposizione di un simbolo identificatore che andava cucito sull’abito (Judenstern), si dava come irreversibile e una volta per tutte.
Checché sostenga l’illustre filosofo, le due cose non si equivalgono. Salvo per chi intende farci cadere nella trappola della banalizzazione – gli intellettuali che accostano il passaporto vaccinale alla stella gialla cucita sul cappotto o coloro che manifestano indossando una pettorina zebrata e denunciano di essere oggetto, per aver scelto di non vaccinarsi, delle stesse discriminazioni subite dagli ebrei negli anni Trenta del secolo scorso. L’indifferenziazione dei fatti, gettati nella notte buia che fa sembrare tutti i gatti scuri, inquina il dibattito pubblico e ferisce la memoria.
Se la storia ha a che fare con la comprensione del passato, la memoria è fondamentalmente un atto di fedeltà verso i morti, come ci ricorda il filosofo Vladimir Jankelevich. Memoria e storia, il 27 gennaio, sono mobilitati per aiutarci ad acquisire la cognizione del dolore (ho preso a prestito il bellissimo titolo di un romanzo di Carlo Emilio Gadda).
È essenziale non perdere di vista entrambe
queste coordinate, per muoverci sul quadrante del passato e per dare senso al
nostro presente senza correre il rischio di farsi trascinare nella trappola da
chi al passato guarda, cinicamente, solo come a una opportunità personale.
[*] Storico e regista teatrale, si occupa di progettazione museale. Tra le sue pubblicazioni, La voce de sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz (1999), da cui è stato tratto Il figlio di Saul del regista ungherese Lázló Nemes, Fineterra. Benjamin a Portbou (2010) e Visitare Auschwitz. Guida all’ex campo di concentramento e al sito memoriale (2011), scritto assieme a Frediano Sessi. È direttore scientifico dell’Istituto mantovano di storia contemporanea. E’ socio e collaboratore dell’Associazione culturale “La città che sale”.