Contro un nemico invisibile
di MIchele Bongiovanni
Venezia, 6-13 luglio 1959. Albert Camus cura presso il teatro La Fenice l’allestimento della propria riduzione teatrale dei “Demoni” di Dostoevskij. Dai suoi taccuini essudano rilkiane sinestesie e si staccano, come scaglie di intonaco disseccato dal sole, lacerti di allucinatoria potenza:
Individui fuori dal tempo, ma pur sempre individui, benché nessuno desiderasse niente al mondo che la continuazione di questa follia stravolta e immobile in mezzo a questo incendio che di ora in ora divorava Venezia, instancabilmente, e a questo punto si aspettava il momento in cui d’un tratto la città, ancora poco prima splendente di colori e di bellezza, si sarebbe accasciata in ceneri che neppure il vento, assente, avrebbe portato via. Aspettavamo, aggrappati gli uni agli altri, incapaci di lasciarci, bruciando anche, ma con una sorta di gioia strana e interminabile, su questo rogo della bellezza. (Albert Camus, “Taccuini, trad. di Ettore Capriolo, Bompiani, Milano, 2018, p. 544).
In quella stessa Venezia magica, magnetica, ipnotica, ostaggio e ostello dei morbi, lo storico dell’economia italiano Carlo M. Cipolla (1922-2000) torna spesso. Già dalla “M” quasi “efelcistica”, aggiunta abbastanza goliardicamente per distinguersi dall’altro Carlo Cipolla, medievista veronese della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento, lo storico pavese denuncia uno spirito brillante e sottilmente ironico nei confronti delle paludate formalità accademiche e sostituisce felicemente ad esse un vitalissimo stile di rigorosa eppure empatica analisi dei documenti, bolle, regesti e registri che è chiave primaria della sua capacità di ricostruire con vibrante e colorita narrazione storiografica contesti, temi, relazioni e problemi che in mani meno fini apparirebbero di insopportabile, muta e vuota inutilità.
Noto a tutti per essere l’autore di“Allegro ma non troppo, le leggi sulla stupidità umana” (1988), un testo che potremmo definire scientifico (che fa da sagace e sapido corollario a “Über die Dummheit” di Robert Musil del 1937) dedicato alla tremenda pandemia di stupidità che affligge senza distinzioni di classe, sesso, età, competenze l’umanità intera specie nell’ultimo secolo in cui la densità di popolazione è cresciuta esponenzialmente rispetto ai secoli precedenti, Cipolla è stato uno dei migliori allievi di Braudel alla Sorbona, docente alla Normale di Pisa, a Berkeley in California, e segue lo stile e il metodo della scuola de «Les Annales», nel maelstrom centrifugo di micro e macrostoria, di strutture e velocità differenti della moviola dello storico. È anche sarcasticamente significativo che l’originale di gran parte suoi testi sia in inglese, tradotto solo in seconda battuta in italiano, come se fosse un recupero tardo della locale e talvolta sonnecchiante accademia.
“Allegro ma non troppo” è diventato ormai strenna quasi automatica per un regalo arguto e vagamente critico (chi non si sente o non si dichiara “critico” nell’epoca della costruzione sui “social” di un sé culturale mai visto o sentito dal vivo ma facilmente esibibile di fronte ai loculi cimiteriali dei “profili” digitali altrui con complicità gregaria?), ma nella società del livellamento e della denuncia di massa anche la critica si depotenzia e diventa vuoto e slentato rituale, habitus di un rictus, una mostra perenne di ballardiane atrocità. Cipolla ha dedicato una serie di celeberrimi testi a questioni reciprocamente convergenti di epidemiologia ed economia (“I pidocchi e il Granduca” del 1979, “Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento” del 1986, “Miasmi ed umori” del 1989, “Il burocrate e il marinaio. La Sanità toscana e le tribolazioni degli Inglesi, nel XVII secolo” del 1992,“Il pestifero e contagioso morbo: combattere la peste nell’Italia del Seicento” del 2012, ma forse il più vasto e completo è proprio “Contro un nemico invisibile”.
L’autore si muove, in tale testo, tra la “peste nera” del 1348 (1347-51) e la sua recrudescenza manzoniana del 1630 ma su tutto si aggira sinistra, come fosse la maschera della morte Rossa di Poe che avanza silentemente minacciosa, la figura suggerita ed in filigrana del medico della peste veneziano, la celebre maschera “sanitaria” dei medici veneziani che usavano nasi lunghi riempiti da spugne imbevute di aceto, paglia e spezie e occhialini per evitare i contagi. Tra le innovazioni scaturite nel contesto italiano dall’amalgama di praticità e terrore Cipolla ricorda:
[…]Ho detto che fin dalla metà del secolo XIV fu chiaro che il successo della lotta contro la peste dipendeva in larga misura da una pronta individuazione dei casi di infezione. Già ai primi del Quattrocento s trovano nelle città italiane disposizioni circa l’obbligo della denuncia dei casi di morte da contagio o comunque sospetti. Ma presto, almeno nelle città maggiori, si estese l’obbligo della denuncia a tutti i decessi.. […] A Milano i registri dei morti iniziano nel 1452 e dal 1503 sono tutt’ora conservati in una serie regolare e continua. A Mantova è conservata la serie che inizia nel 1496. . […] I famosi e sempre citati Bills of Mortality di Londra del secolo XVII non furono che una derivazione di questa pratica che in Italia rimontava alla seconda metà del secolo XV. (C. M. Cipolla, “Contro un nemico invisibile”, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 23).
Sembra una cronaca di questi giorni virali (e ferali) dell’anno 2020 in Italia: «La gente anche per ignoranza è insofferente di limitazione e controlli e la gente di Prato non faceva certo eccezione. Il 1630 fu un’annata vinicola eccellente per la produzione viticola, e in settembre ed ottobre, ad onta del fatto che il villaggio di Tavola fosse già stato “chiuso” per causa di numerosi casi di morte e di malattia sospetti, molti pratesi vi andarono per vendemmiare». (C. M. Cipolla, cit., p. 113).
È tutta una ridda di bollette sanitarie (specie di passaporto sanitario) vere e false da esibire negli spostamenti da una quarantena e l’altra (come le attuali autocertificazioni, beffe dei corsi e ricorsi storici), una pestilenziale ed ammorbante retorica del panico che favorisce il contagio, assalto isterico ai forni (supermercati…), barricate da stato di natura hobbesiano (che più che un modello mentale è un sottotesto sempre presente nelle società umane), e chi più ne ha, ne metta. La legge morale inascoltata nello sbeffeggio delle pretese kantiane mai come nelle epidemie e pandemie si mostra in tutta la sua problematicità non tanto concettuale, quanto di prassi.
Il “nemico invisibile”, il morbo, flirta con i corpi inermi ed incauti, si insinua ed incista come vorace metastasi in ogni anfratto del quotidiano vivere pubblico e privato facendo saltare i già logori sigilli di ciascuna pratica della cosiddetta società medievale così come di quella della cosiddetta società avanzata. L’irrisolta, perché connaturata all’umano esistere, angoscia kierkegaardiana è ufficialmente ancora compagna di Vita, per l’indecifrabile minaccia che si nasconde su ogni superficie e in ogni bacio, un Thanatos beffardo il cui ghigno schopenhaueriano prelude al rigor mortis di un’umanità ormai abitante un disperato lazzaretto globale. Troppo facile la citazione con tanto di obbligatorio “trending hashtag” del Camus della “Peste” ma difficile, invece, è rileggerlo veramente nella sua portata metaforica non tanto microbiobatteriologica quanto sociologica e filosofica, riguardante la condizione di aggressiva, aggredibile e garrula folla-massa la cui caratteristica principale è la fissità folle dello sguardo fanatico e suicida di fronte a ideologie della distruzione e a epidemie invisibili eppure invasive.
Agglutinanti feticci di Morte e macabri sortilegi della superstizione accomunano Cipolla e Camus nella loro partecipe condivisione di etiche del quotidiano che nella storia sembrano costanti ed indipendenti dalla superficie dello sviluppo tecnologico. Un’umanità vulnerabile che rifiuta di vedersi fragile e appunto “umana”, ma vuole ostinatamente affermare deformate e deformanti libertà di azione ed impresa, mutilazioni di ecosistemi e slabbrature della prassi di convivenza sociale e politica.
«Presto ci si rese conto anche che l’opera di un Magistrato della sanità acquisiva molto maggior senso e valore se coordinata ed in collaborazione con l’opera delle Magistrature degli altri stati della Penisola. Dalla metà del secolo XVI in poi fu pratica comune che, al di là delle differenze politiche o contrastanti interessi economici, i vari uffici si scambiassero regolarmente dettagliate informazioni sanitarie. […] Il solo e semplice volume della corrispondenza è impressionante ed uno deve mettere in conto anche che la gran parte di tale lavoro fu compiuto in mezzo a grosse difficoltà, in un clima di terrore, di miseria e di morte, nell’ignoranza di un nemico invisibile ed implacabile, tra le resistenze dei potenti, la superstizione del popolo e del clero, la incomprensione, la critica e l’ostilità dei più. I benefici di tutta questa attività furono sproporzionatamente ridotti rispetto ai costi. Il fatto tragico è che i magistrati combattevano contro un nemico sconosciuto ed invisibile. E quando ci si batte alla cieca, inevitabilmente si sprecano energie e risorse e magari si prendono anche misure controproducenti». (C. M. Cipolla, cit., pp. 24-25).
Il primato italiano delle bolle di sanità medievali e rinascimentali nel quadrilatero Venezia, Milano, Genova, Firenze (il sud rimaneva arretrato a causa della struttura sociale meno borghese e meno specializzata) si scontrava con burocrazie cavillose volte a preservare alcuni notabili o interessi commerciali e quindi ne derivavano segregazioni e controlli targetizzati su categorie specifiche meno “protette” e incomprensioni attribuite e addebitate al bizzarro folklore italico da parte di paesi ed osservatori esteri: «In Prussia un Collegium Sanitatis fu istituito soltanto nel 1685, forse su proposta di Leibniz». (C.M. Cipolla, cit., p. 19) .
Ma Venezia è città di maschere, da Carnevale o epidemia: la maschera aderisce su Venezia come cosmesi essenziale, e forse è proprio quella maschera a mostrare come proprio chi apparentemente non la porta esibisce il più grande camuffamento: la pretesa di controllare il sé ridotto a schema rigido e marmoreo e sicuro, non processuale e rischiosamente periclitante nel triturante scorrere del Tempo. Come dire: la maschera, una aletheia del costume, non solo svela velando, ma addirittura salva.
In Cipolla emerge con icasticità virulenta la vita quotidiana pubblica e privata dal Trecento al Seicento, in un’orgia di liquami dalle finestre che con un certo sarcasmo contrappuntano altre oleografiche rappresentazioni del passato medievale e rinascimentale per fare emergere ancor più l’eccezionalità del lindore e del nitore artistico ed intellettuale di epoche che pure erano intrise di sporcizia e violenza, a partire da Lorenzo Il Magnifico la cui ferocia machiavellica, non abnorme in quei tempi di congiure nei sacri templi, è smussata, mascherata dall’apparente, o bramato per contrasto, “chi vuol essere lieto sia”.
Il mondo in quarantena si è italianizzato anche e ancora nella parola, che indicava la “quarantina” di giorni di isolamento di navi, merci e persone ritenute contagianti e o contagiate. L’Italia, fino al XVII secolo, era all’avanguardia anche nelle misure primitive di arginamento dei contagi, tenendo conto che la conformazione della penisola e le fittissime attività delle repubbliche marinare e di tutti i porti recavano con sé inevitabilmente anche commerci e spillover di virus, batteri, pidocchi ed esotici parassiti.
Francesco Redi (“Osservazioni intorno alle vipere”, 1664; “Esperienze intorno alla generazione degl’insetti”, 1668) e Girolamo Fracastoro (“De contagione et contagiosis morbis”, 1546; “Syphilis sive de morbo gallico”, 1530), ma anche il loro “collega” inglese William Harvey, sono riuniti in Cipolla in un’unica missione “omne vivum ab ovo”, contro la teoria dei miasmi imperante secondo la quale i “morbi” si muovevano nell’etere o accompagnavano determinate categorie sociali minoranze o categorie sociali espiatorie colpevolizzandole razzisticamente ed ideologicamente. Bisogna attendere Alexandre Yersin e il 1894 per venire a capo della reale eziologia della peste con la individuazione del batterio responsabile (yersinia pestis), rivolgendo contro gli edificatori l’ignominia di ogni “colonna infame”. Alla truculenta peste di Giustiniano del VI secolo, alla falcidiante “peste nera” della metà del Trecento con le sue ondate successive, al deturpante e sfigurante vaiolo, alla vampiresca “spagnola” e all’improvvisa influenza asiatica del 1957-60, fino allo stigmatizzante HIV, alle recenti SARS e MERS, Ebola e Zika, oggi dobbiamo drammaticamente aggiungere un nuovo capitolo epidemiologico con la semi-globale quarantena indotta dal COVID19 (SARS-CoV-2). L’apparente sfasatura temporale delle cronache di Cipolla rispetto al “nostro 2020” si ricompone in una perfetta sincronia di un eterno presente laddove si denuda il corpo insolente e tremebondo dell’Umanità invasa da una febbricitante smania di Vita che si incendia parossisticamente quanto più il fantasma della Morte si rende concreto e inesorabile compagno di viaggio. Nondimeno, come a Patmos e in Patmos, «Wo aber Gefahr ist, wächst / Das Rettende auch» (“Là dove è il Pericolo, lì cresce anche Ciò che salva”). Dopo l’Apocalisse, nonostante l’Apocalisse.
Verona, 5 aprile 2020
Bibliografia. Carlo M. Cipolla, “Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento”, Il Mulino, Bologna, 1986.; Albert Camus, Taccuini, trad. di Ettore Capriolo, Bompiani, Milano, 2018.