Dizionario del Tempo del Virus D-F
A
ALIENO
ALLENAMENTO
AMBIENTE
AMUCHINA
ANTICORPI
Antologia di Spoon River (Lee Master)
ANZIANI
Armi, acciaio e malattie, Diamond
Aspettando Godot Beckett)
ASSEMBRAMENTI
ATTESA
AULE VUOTE
AUTOCERTIFICAZIONE
B
BALCONE
BARBIANA
BELLA CIAO
BELLEZZA (S)CONFINATA
BOLLETTINO DI GUERRA
BRICOLAGE
C
Camera verde (Truffaut)
CAMMINARE
CAOS (NUOVA TEORIA)
CATTIVITA’
Cielo in una
Cielo in una stanza (Paoli)
Città verrà distrutta all’alba (Romero)
CLAUSTROFOBIA
CLAUSURA
COMPLOTTISMO
COMPLOTTISMO: UNA POSTILLA
COMPLOTTISMO: TEORIE DEL COMPLOTTO I
COMUNICAZIONE MEDICO-SCIENTIFICA
Condannato a morte e fuggito (Bresson)
CONNESSIONI
CONFERENZA STAMPA
CONFINE
CONFINO
CONTABILITA’
CONTAGIO
Contagion, Soderbergh
CONTATTO
CONVERSIONE
COPRIFUOCO
CORONABOND
COVID-19
COVIDIOTA
D
Decamerone (Boccaccio)
Dei Sepolcri (Foscolo)
DEMOCRAZIA
DENTRO/FUORI
Deserto dei Tartari (Buzzati)
DIALOGO
Diario dell’alloggio segreto (Frank)
Diario dell’anno della peste (Defoe)
Diceria dell’untore (Bufalino)
DIDATTICA A DISTANZA
DIRITTO ALLA SALUTE
DISEASE X
DISPOSITIVO DI PROTEZIONE INDIVIDUALE
Dissipatio H.G. (Morselli)
DISTACCO
DISTANZE
DISTANZIAMENTO
DPCM
Dottor Semmelweis (il), Celine
DRESS CODE
DRESS CODE PUBBLICITA‘
DUECENTO METRI
E
EPIDEMIA
EROE
F
FALSE NOTIZIE
FAME
FANTASMA
FARE LA CODA
Festino nel tempo della peste (Puskin, Kiuj)
Finestra sul cortile (Woolrich, Hitchcock)
FOCOLAIO
FOSSE COMUNI
FRAGILITA’
FRONTIERE EUROPEE
FUNERALE
FUTURO
G
Game Changer (Bansky)
GATTO
GIORNI
Giorno dei trifidi (Wyndham)
GUERRA
Guerra dei mondi (Wells)
Guerra del Peloponneso (Tucidide)
H
I
IMMOBILITA’
IMMUNIZZAZIONE
IMPRESA
Inferno, Comedia (Dante)
INFORMAZIONE
INTIMITA’
INVISIBILITA’
IRRESPONSABILI
IO QUINDICENNE STUDENTESSA ON LINE
IO UNDICENNE RECLUSO DOMESTICO
ISOLAMENTO
L
Lacrime amare di Petra von Kant (Fassbinder)
LAVAGGIO DELLE MANI RITUALE
LAVARSI LE MANI
LAZZARETTO
LEGGINS
Lentezza (Kundera)
LIBERTA’
Libro contro la morte (Canetti)
LIMITE
LOCKDOWN
M
MALATTIA
Maschera della morte rossa (Poe)
MASCHERINA
MEDICO DI FAMIGLIA
METAFORE DI GUERRA
MITIGAZIONE
MONDO
MONDI PARALLELI
MORIRE
MUSICA VIRTUALE
N
NASCONDERSI
NATURA
NEGAZIONE
NEMICO
Noè (Recherche, Proust)
NOI QUINDICENNI E LA PAURA
NON CREDO
NON MOLLARE
NONNI
NOSTALGIA
O
OLFATTO
OMS
ORA D’ARIA
ORDINANZA
P
PARLAMENTO
PAROLA
PARTENZE
PASSEGGIATA
Passeggiata (Walser)
PASSEGGIATA CON IL CANE
PAURA
PAZIENTE ZERO
PAZIENZA
PERIFERIA
Peste (Camus)
Peste bruna è passata di là (la), Guerin
Pestifero e contagioso morbo (Cipolla)
PICCO
PIPISTRELLO
POESIA
PREGHIERA
PRIMA LINEA
PRIMAVERA
PRIVACY
PROVINCIA
PROVVEDIMENTI CONCORRENTI
PROUST
PUBBLICITA’
PULVISCOLO COMUNICATIVO
Q
R
Ragazza col timpano perforato (Bansky)
RECLUSIONE
RELIGIONE
REPULSION (Polanski)
RESILIENZA
RIVINCITA
RUNNER
S
SALUTE ISTITUZIONALE
SARS-Cov-2
Scritti sui terremoti (Kampf)
SEGNALATORI DI INCENDIO
SELVATICO
SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
SESSO
SILENZIO
SMARRIMENTO
SMART WORKING
SOLITUDINE
SONNAMBULISMO
SPAGNOLA
SPAGNOLA, MEMORIA
SPESA
SPIRITUALITA’
Stanza tutta per sè (Woolf)
STARE A CASA
STATO
STATISTICHE
STATO DI EMERGENZA
STORIA ON LINE
Stronzate (Frankfurt)
SUPERMERCATO
T
TALK SHOW
TAVOLO
TAMPONE
TEMPO
TERAPIA INTENSIVA
TESTIMONI SCOMPARSI
TRACKING COVID-19
TRIAGE
TUTA
TUTTO ANDRA’ BENE
U
V
VELOCITA’
VACCINO
VIAGGIO
Viaggio intorno alla mia camera (de Maistre)
VIRULENZA
Volto e il vaiolo (Pascal)
VULNERABILITA
Z
Dei Sepolcri
Ugo Foscolo, 1807
di Alberto Battaggia, docente e giornalista
Ugo Foscolo scrisse il poemetto didascalico Dei Sepolcri, di getto, nel 1806, in seguito al confronto che ebbe con il veronese Ippolito Pindemonte sul tema della utilità delle tombe. La questione si accese dopo l’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804, che prescriveva, in nome di esigenze igienico-sanitarie ed ideologiche, nuove norme cimiteriali, tra le quali l’anonimato della sepoltura.
Già il nome, solenne, valorizza l’estremo confine della vita. Una prima compensazione della tragedia: prepara l’ illusione foscoliana. Il poemetto del veneziano li ha immortalati nell’immaginario scolastico nazionale, mentre la tradizione didattica li ha consegnati ad una contraddizione formidabile: se nessun destino attende i defunti, perché tanto gran can quando si muore? Ugo lo spiega: l’immaginazione ha bisogno di un supporto materiale. Perché i fantasmi appaiano alla mente – lui che ci sorride; lei che rimbocca le coperte; le strane parole, quando partimmo; il caldo di quella sera… – i nostri sensi vanno mobilitati. L’urgenza feticistica del desiderio, proprio perché insoddisfacibile, si manifesta al massimo grado nell’amore e nella morte. Spargiamo baci nella vaniglia delle lettere più dolci: e lei è lì, ad attenderci ed eccitarci; versiamo lacrime nell’amaro dei cipressi: e lui è lì, a parlare e guardarci. Il pensiero è un prolungamento immateriale del corpo, una larva quantica, un respiro elettrico: e non dimentica le sue origini. Vuole un contatto, l’adesione alle superfici, una carezza alla scorza del mondo.
Il 17 marzo scorso, a Bergamo, un frate francescano, chino sulle bare, vi appoggiava il cellulare dei parenti, costretti lontano. “Così riescono a parlare con loro” spiegava il cappuccino. Il gesto pietoso del frate e dei famigliari si rivela dunque meno grottesco di quello che pare: non una parafrasi postmoderna e postfoscoliana della società di massa; ma un gesto ingenuo, commovente ed umanissimo, nel tempo del Coronavirus.
Verona, 23 marzo 2020
DEMOCRAZIA
di Roberto Capuzzo, avvocato
La dichiarazione dello Stato di Emergenza impone una seria riflessione sulle possibili insidie per la democrazia ed in particolare per alcuni dei diritti riconosciuti come inviolabili nella nostra Carta costituzionale (articoli da 13 a 54). I costituenti non hanno previsto alcuna gerarchia di valori tra i diritti, né tantomeno hanno stabilito che la libertà cede dinnanzi al diritto alla salute, che pure l’art. 32 definisce come “fondamentale”. Anzi, a ben vedere, il primo diritto della persona riconosciuto nella Costituzione è la Libertà personale che l’articolo 13 espressamente definisce “inviolabile” aggiungendo che “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, ispezione o perquisizione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
La libertà personale è dunque il presupposto, la condizione essenziale per l’esercizio delle altre libertà garantite dalla Costituzione, tra queste la libertà di circolazione (art. 16), la libertà di riunione (art. 17), la libertà di culto (art. 19). Pur riconoscendo l’eccezionalità della situazione attuale ed il dovere di tutelare il diritto alla salute nell’interesse generale e addirittura la vita, è ugualmente legittimo il dubbio se la disciplina prodotta per contrastare l’emergenza sanitaria possa derogare in modo così marcato ai principi costituzionali. Se è vero che l’art. 2 della Costituzione, nel garantire i diritti inviolabili richiede anche l’inderogabile adempimento dei “doveri di solidarietà politica, economica e sociale” e dunque di accettare la compressione di diritti di rango costituzionale dinanzi ad un evento straordinario, è anche vero che è sempre necessario -questo è il punto- che tali limitazioni vengano imposte in stretta osservanza delle “procedure” previste dalla Carta costituzionale e che l’intervento dell’autorità sia rigorosamente proporzionato alla gravità della situazione. Un paio di esempi chiarire meglio il concetto.
Primo esempio. L’art. 17 prevede che le riunioni in luogo pubblico possono essere vietate “soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Nulla è stabilito con riguardo al diritto di riunione in luogo privato che, quale diritto attinente alla persona, deve ritenersi inalienabile. Non contestata la legittimità di pretendere che, per gravi motivi di tutela sanitaria, tra le persone sia mantenuta la distanza o indossate le mascherine, altro è spingersi a vietare tout court ogni incontro anche privato in luogo privato tra persona e persona.
Secondo esempio. L’art. 16 prevede il diritto di circolazione “salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e di sicurezza”. Ma se è impedito di uscire di casa e se viene imposto un comportamento restrittivo non dissimile dagli arresti domiciliari, è evidente che non si tratta più del diritto di circolazione bensì di una limitazione direttamente incidente sul diritto di libertà personale che l’articolo 13 definisce “inviolabile”. Prosegue la norma precisando che la libertà personale non può essere limitata “se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria (c.d riserva di giurisdizione) e nei soli casi e modi previsti dalla legge (c.d. riserva di legge)”. A mente di questi principi il Governo non può in nessun caso disporre restrizioni generalizzate della libertà personale. La doppia riserva rafforzata -di giurisdizione e di legge- fu condivisa, in sede Costituente, da Togliatti e da Moro, a significare che la libertà personale può essere limitata solo per atto dell’autorità giudiziaria.
In tale quadro, pur considerando l’eccezionalità del momento e la necessità di salvare vite, i provvedimenti del Governo che hanno costretto i cittadini a rinchiudersi a casa, presentano ugualmente seri dubbi di costituzionalità. Anche la forma dei provvedimenti governativi, cioè la procedura adottata, desta serie perplessità. L’emergenza sanitaria è stata sostanzialmente gestita dal Governo non con atti aventi forza di legge ma con atti di natura amministrativa (DPCM Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e decreti ministeriali) oltre che da Regioni e Comuni, con un profluvio inestricabile di ordinanze spesso tra loro contraddittorie, in una gara a chi è più duro mentre il Parlamento, che è al centro del sistema di bilanciamento dei poteri dello Stato, è stato di fatto esautorato. In concreto, le libertà costituzionalmente garantite sono state radicalmente limitate da atti del Governo, principalmente del Presidente del Consiglio, forte di una sorta di delega in bianco conferitagli con un decreto legge emanato dal Consiglio stesso (art. 3 del d.l. n. 6 del 23.02.2020). In sostanza un’autodelega. In conclusione, l’entità delle restrizioni ai diritti fondamentali appare sproporzionata rispetto alle pur gravi necessità reali ed inoltre esse sono state imposte con strumenti normativi inadeguati.
Solo a titolo d’esempio, il divieto all’esercizio fisico all’aperto e alle passeggiate, denotano una scarsa fiducia nell’autodisciplina dei cittadini e nella loro effettiva comprensione della gravità della situazione. Le misure restrittive dei diritti costituzionali attuate dall’Esecutivo con strumenti di natura amministrativa anziché con atti aventi forza di legge, ha sicuramente determinato un profondo vulnus nel sistema di bilanciamento tra i poteri dello Stato, che è il principio cardine che ha ispirato i nostri costituenti. Quando sarà finita la pandemia non saranno finiti i problemi. La profonda crisi economica e sociale che ci aspetta è il terreno di cultura ideale per iniziative “forti” e non è difficile immaginare gli argomenti che potrebbero darsi per motivare future restrizioni delle libertà, non più giustificate da ragioni sanitarie. Non sono certamente in corso prove di dittatura ma è certo che questa terribile esperienza imporrà un profondo ripensamento dei poteri dell’Esecutivo e degli strumenti normativi che potranno essere adottati a seguito di dichiarazione dello Stato di emergenza.
Verona, 27 aprile 2020
DENTRO/FUORI
di Carlo Saletti, storico e regista teatrale
Dentro e fuori costituiscono gli elementi di una relazione lessicale oppositiva che descrive posizioni nello spazio definite da un limine. L’epidemia e la percezione della sua pericolosità hanno fortemente a che fare con questa nozione. I provvedimenti del governo cinese di isolare dal resto del territorio, attraverso l’adozione di misure di quarantena, l’area metropolitana di Wuhan (23 gennaio 2020), capoluogo e città più popolosa della provincia di Hubei, hanno distinto nelle prime settimane dell’epidemia l’interno e l’esterno del focolaio.
Al tempo stesso, si è stabilita un’opposizione valoriale tra chi era confinato all’interno dell’area e chi, fuori dall’area posta in isolamento, poteva muoversi liberamente nello spazio esterno (il resto del globo) – opposizione che trova facilmente corrispondenza linguistica nella locuzione aggettivale ‘essere fuori pericolo’. Nelle settimane successive, l’epidemia si è evoluta nella contrapposizione esterno sicuro vs interno non sicuro.
Dopo essere stato ufficialmente registrato il primo caso in Italia, il 21 febbraio 2020 (anche se analisi successive hanno antedatato la presenza del virus nel nostro territorio), la coppia oppositiva si è riproposta entro i confini nazionali con l’assunzione da parte dell’autorità pubblica dei primi provvedimenti “in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID 19”. Il comune veneto di Vo’ Euganeo, uno dei primi cluster dell’epidemia, è stata isolato dal resto del territorio, il 23 febbraio, mentre l’epidemia si sviluppava a macchia di leopardo in tutto il nord Italia e nel resto del paese, e ugualmente in 112 paesi nel resto del mondo (tanto da far innalzare, l’11 marzo, la malattia COVID-19 a livello di pandemia).
La dialettica interno/esterno ha mostrato la sua irriducibilità nelle ore che hanno accompagnato la discussione in senso al Governo di estendere all’intera Lombardia le restrizioni sino ad allora disposte per aree più limitate (le cosiddette zone rosse), che ha portato a emanare il DPCM del 9 marzo 2020. La notizia che, nella serata di domenica 8, il governo avrebbe assunto provvedimenti più restrittivi negli spostamenti personali e la chiusura dell’intero territorio, ha provocato un massiccio spostamento da Milano e dall’area lombarda di persone non residenti verso le regioni di provenienza, per allontanarsi da quello che stava per essere riconosciuto come un dentro. L’ incontrollato e improvviso spostamento, che ha riguardato migliaia di persone, ha provocato il disappunto dei presidenti delle regioni del meridione d’Italia, seriamente preoccupati che l’arrivo massivo e concentrato di persone potenzialmente portatrici di infezione avrebbe destabilizzato il quadro sanitario del proprio territorio, che avrebbe rischiato in questa maniera di assumere la connotazione di un dentro.
Custoza (VR), 3 aprile 2020
Deserto dei tartari (il)
Dino Buzzati, 1940
di Arturo Stàlteri, pianista e conduttore radiofonico
I“Ho camminato girando a vuoto Senza nessuna direzione Mi tiene immobile nei limiti L’ossessione dell’Io” Così canta Franco Battiato in un brano di tanti anni fa, dal titolo Fortezza Bastiani. Amo particolarmente quella canzone, e in particolare la strofa appena citata, che mi ha sempre fatto riflettere. In questi giorni, come tutti, sono chiuso in casa; devo dire che non sono un grande amante della compagnia, e non soffro particolarmente per la mia attuale condizione di “recluso”. Qualcuno obietterà che l’atteggiamento psicologico può cambiare, quando uno stile di vita ci viene imposto, anche se esso non è così lontano dalla nostra quotidianità. Ma mi domando: siamo veramente in una condizione di immobilità? Stiamo realmente reprimendo un bisogno di “movimento” (non solo fisico)? E se ci accorgessimo di aver girato a vuoto fino ad oggi, paralizzati da un ego dal quale non riusciamo a prendere mai una pausa, neanche per pochi istanti?
Riconosciamolo: parte della nostra normalità consiste nel degradare a ritmi supersonici (anche se a volte inconsapevoli) un pianeta che proprio non ci sopporta più, schiacciato com’è dalla nostra arroganza e dalla bramosia di logorare ed avvelenare a tutti i costi. Anche in questo caso ci sarà chi, con aria seccata, vorrà farmi notare che non siamo solo questo, che in noi c’è molto di più … Cambierà qualcosa quando l’emergenza sarà passata? Saremo più responsabili, e grati di essere ospiti del terzo pianeta del sistema solare? Io non credo; l’umanità non ha mai fatto tesoro dei propri sbagli, e temo non accadrà neanche stavolta. Il sottotenente Drogo, divenuto, dopo trent’anni di servizio, vicecomandante della fortezza Bastiani, continua ad aspettare che i Tartari si rivelino. La morte lo coglierà proprio quando sembra che qualcosa si stia muovendo all’orizzonte. Ma non è deluso, non si sente frustrato; ha avuto uno scopo nella vita: l’attesa. Poco importa se ciò per cui ha vissuto non si è verificato, anzi, meglio così. Non c’è niente di peggio che ottenere quello che si crede di volere, per poi rendersi conto che si trattava soltanto di un trucco, di un incantesimo della mente. Cerchiamo di non comportarci come lui, e approfittiamo di questo periodo di isolamento. Per fare cosa, dite? Se ve lo state domandando siete senza speranza.
Roma, 10 Aprile 2020
Diario dell’alloggio segreto
Anne Frank, 1947
di Frediano Sessi, storico e sociologo della storia
Anne Frank, ebrea di origine tedesca (Francoforte, 12 giugno 1929 – Bergen-Belsen, probabilmente febbraio/marzo 1945). Il suo Diario fu pubblicato dal padre, Otto Frank, il 25 giugno del 1947 con il titolo: Het Achterhuis. Dagboekbrieven van 12 juni 1942 – 1 augustus 1944 (La casa sul retro. Diario epistolare dal 12 giugno 1942 al 1° agosto 1944). Dopo la morte del padre (il 19 agosto 1980), si scoprì che gli scritti di Anne erano molti di più. C’era un diario intimo, costituito da cinque quaderni e un racconto del diario che Anne cominciò a scrivere il 20 maggio del 1944, poco prima di essere arrestata. Inoltre, vennero ritrovati dei racconti e molti quaderni e fogli di esercizi scolastici e di appunti.
All’inizio, i Frank pensavano di rimanere nascosti in Prinsengracht 263 per alcuni mesi ma, in realtà, vi rimasero fino al giorno del loro arresto, la mattina del 4 agosto 1944. In quella casa di poco più di cinquanta metri quadrati, Anne viveva con altre sette persone, tra cui quattro adulti. Mancava la luce e l’aria era stantia, le finestre erano sempre oscurate e non si potevano aprire; mancava lo spazio, la camera di Anne era un corridoio che doveva dividere con un adulto che lei non conosceva; era possibile muoversi soltanto quando la fabbrica del padre era chiusa, la mattina presto e nel tardo pomeriggio.
Gli alimenti scarseggiavano e anche i vestiti si consumavano e venivano rammendati alla meglio. Per Anne, in fase di crescita, i vestiti diventavano sempre più stretti e corti. Lei leggeva, scriveva, cercava di immaginare un mondo diverso, non solo guardando il cielo dal lucernario della soffitta, ma alimentando la sua fantasia con le storie delle eroine dei romanzi che Miep Gies, la segretaria del padre, le procurava. Leggendo, scrivendo e immaginando si preparava a essere una donna in un mondo nuovo. Aveva trasformato la sua reclusione forzata in una risorsa, per acquisire gli strumenti per la vita futura, senza perdere la fiducia in un avvenire migliore. Per questo, nei giorni del suo isolamento, lavorò per far prevalere il lato migliore di se stessa.
Mantova, 24 marzo 2020
Bibliografia: Diari, Einaudi, 2002 (edizione italiana a cura di Frediano Sessi); Diario, Einaudi, 1993 (a cura di Frediano Sessi), per i più piccoli, Frediano Sessi, Il mio nome è Anne Frank, Einaudi ragazzi 2010.
DIDATTICA A DISTANZA
di Alberto Battaggia, docente e formatore
Con uno scatto di orgoglio insperato, gli insegnanti italiani hanno scoperto gli strumenti digitali. Gsuite, Skype, GoToMeeting, Moodle, Classroom, Hangout…Vent’anni di ritardi annullati in due settimane: la scuola salvata dalla didattica a distanza. Ma è davvero così?
All’inizio era la scuola radio Elettra. Agli iscritti arrivavano mensilmente via postale dei pacchi: di volta in volta, fili elettrici, nastri isolanti, ghiere, un piccolo saldatore, poi delle valvole degli, interruttori… La cosiddetta Formazione a distanza di prima generazione, negli anni Sessanta. Interazione umana zero. O ce la fai o non ce la fai. Come quella, contemporanea, di Alberto Manzi, il mitico maestro televisivo che rimediava al diffuso analfabetismo rurale di allora. Una pedagogia coerente a quella frontal-militare dell’epoca, fondata sul sacro binomio professore in cattedra più manuale (qualcuno ricorderà il mitico “La Manna”, di filosofia): ” E se poi non capisco”? “Impara a memoria”!
La svolta vera, almeno potenziale, nel campo dell’apprendimento scolastico assistito da tecnologie digitali e telematiche, poteva avvenire in Italia già a metà degli anni Novanta, quando maturarono alcune condizioni tecnologiche che permettevano di trasferire nella pratica scolastica quotidiana gli assunti epistemologici del XXI secolo. Il mondo web, mettendo a disposizione una quantità sterminata di informazioni e di fonti dirette (dalle statistiche ai testi letterari, dalle opere d’arte alle simulazioni di fisica e in tutte le lingue del mondo) evidenziava, semplicemente utilizzando un motore di ricerca, il carattere cangiante, in progress, costruttivistico, del sapere, espressione di un reticolo infinito di apporti e rapporti concettuali. La navigazione Web, addestrata da un nocchiero esperto, permetteva anche ad un ragazzo di assaporare la natura multiforme e problematica della conoscenza. Di cercare non “la verità”, ma il dibattito “attorno alla verità”; di seguirne prima gli attori e diventare poi esso stesso protagonista della “costruzione” della conoscenza. E il manuale? E la cattedra? Protettivi, rassicuranti….Situazione leopardiana: sarebbe stato bello credere ancora alle illusioni. Ma non si poteva più. Diventava invece possibile, grazie ai tool per scrivere, editare su web e fare calcoli; grazie alle meravigliose piattaforme freeware e opensource disponibili – come Moodle, ad esempio – trasformare le dinamiche cognitive scolastiche in senso laboratoriale, sperimentale, costruttivistico. Abituare i ragazzi a confrontare dati, testi, numeri, opinioni; a costruire le proprie conoscenze e le proprie competenze creando attorno a loro un “ambiente di apprendimento collaborativo”. Il docente, in questo quadro, diventava un facilitatore dell’apprendimento del discente: e costui, finalmente, veniva posto al centro dell’attenzione. La telematica, il digitale, quindi, non servivano a tenere lontani i ragazzi dalla scuola, ma ad insegnare loro ad esplorare ed organizzare concettualmente il mondo.
Ma non è andata così. Vuoi per le pressioni sul mercato delle grandi software and hardware house internazionali; vuoi per la progressiva dequalificazione contrattuale e professionale della categoria docente; vuoi per la stupefacente, regressiva opposizione pseudoumanistica di parte significativa del corpo insegnante; vuoi per alcune scellerate strategie formative ministeriali, buona parte dei docenti hanno inteso, per anni e anni, che si chiedeva loro, per diventare “innovativi” di imparare a smanettare. Che la professione non andava riqualificata in termini metodologici, di “processo”, ma in senso “tecnico”, di prodotto. Opponendo così, agli imperativi della formazione, un atteggiamento non infrequentemente plebeo, fatto di indolenza, noia, arroganza verso una problematica sostanzialmente non compresa nei suoi termini fondamentali. Sintomatica la disinvoltura con cui anche oggi si confonde la “didattica digitale” – un’espressione talmente generica da risultare vuota – da quella di “didattica a distanza”, che invece ha alle spalle decenni di letteratura scientifica internazionale.
Il modo in cui la scuola ha reagito a Covid è stato coerente a questi presupposti. Gli insegnanti, in gran parte, hanno inteso che le tecnologie permettono di trasferire on-line le stesse operazioni pedagogico-didattiche che svolgono in presenza. Di qui l’ingenuo entusiasmo per le conferenze in diretta, con annessa ansia fiscale: “ma devo segnare gli assenti”? Ansia diventata angoscia quando hanno iniziato a valutare. Alcuni di loro hanno costretto i discenti a guardare fisso nella telecamera in modo da permettere di cogliere lo sguardo furbo verso il quaderno degli appunti col manuale; altri hanno chiesto che la telecamera fosse posta dietro le spalle, così da impedire i suggerimenti di genitori compiacenti. Una follia. Il fatto è che non sono le relazioni sincrone, quelle che caratterizzano le metodologie della didattica a distanza. Al contrario. Se si andrà, come si dice, verso una scuola che adotta relazioni didattiche blended distanza-presenza, si tratterà di proporre ai discenti una triangolazione basata sull’ analisi di materiali scientifici di varia natura messi a disposizione sulle piattaforme; lo svolgimento di esercitazioni diversificate per obiettivi di apprendimento; un tutoring costante dei docenti e il confronto con i pari in chiave cooperativa e collaborativa. Ossia metodologie proprie della didattica a distanza. Non saranno i docenti a dovere smanettare, ma i discenti. Saranno loro a progettare presentazioni e ipertesti, a elaborare progetti, a costruire robot. La valutazione? Non i test strutturati con-la-macchina-che-li-corregge-in-un-attimo. Non la chat in diretta guardami-negli-occhi. Non è questa la partita della didattica a distanza. Semmai, una valutazione formativa basata su un portfolio di attività sistematiche, svolte in un arco di tempo sufficientemente lungo, raccolte da piattaforme progettate per favorirne le attività di organizzazione, assistenza, discussione, confronto.
E dopo Covid-19? Le esperienze di queste settimane saranno comunque preziose. Per molti docenti, avere semplicemente rotto il ghiaccio con le aule virtuali e le chat, con la propria faccia diffusa via video a più persone e con le procedure di attivazione di una connessione, è stato importante. Ora saranno fondamentali le risorse impiegate e gli impegni contrattuali: per insegnare ai docenti italiani le metodologie della didattica a distanza; e per fare della formazione il primo dovere di chi deve formare gli altri.
Verona, 3 maggio 2020
DIRITTO ALLA SALUTE
di Luciano Butti, docente di diritto ambientale unipd
Chi è tutelato?
E’ tutelato “l’individuo”, tutti siamo tutelati e dobbiamo tutelare tutti. La scelta è simile a quella dell’art. 34 (“La scuola è aperta a tutti”) e diversa invece da quella relativa ad alcuni diritti politici, riservati ai soli “cittadini”.
Che cos’è la salute?
Molte Corti e organizzazioni internazionali hanno sottolineato che la salute non è semplice assenza di malattia, ma “completo benessere fisico e psichico”. Ci sarà da riflettere anche su questo, quando, a emergenza finita, ricorderemo le discussioni di questi giorni relative alla “passeggiata”. A partire dagli anni Settanta del Novecento, inoltre, la giurisprudenza ha iniziato a considerare il diritto a un “ambiente salubre” come ulteriore condizione necessaria per rendere effettivo il diritto alla salute.
Quanta salute è costituzionalmente tutelata?
L’art. 32 si limita a fissare un’indicazione per il legislatore (“norma programmatica”) oppure genera un vero e proprio diritto soggettivo per l’individuo (“norma precettiva”)? Nei rapporti fra privati, la norma costituzionale è precettiva. Ogni persona dispone di un diritto fondamentale a che la propria salute non venga pregiudicata da altre persone o aziende. Ciò tuttavia (Corte costituzionale n. 85/2013 sul caso “Ilva”) deve tener conto che nessun diritto costituzionale può essere “tiranno” su altri diritti fondamentali (come ad esempio il diritto al lavoro).
Nei rapporti fra i cittadini e lo stato, invece, il diritto costituzionale alla salute è “finanziariamente condizionato”. Tuttavia, un “nucleo irrinunciabile” riceve tutela costituzionale a prescindere dalle compatibilità finanziarie. Per tutelare questo “nucleo irrinunciabile” di salute, il cittadino può agire contro lo stato o la regione, che non possono difendersi sulla base dell’assenza di fondi.
Personalmente, aggiungo un considerazione. Se fatichiamo, come fatichiamo, per garantire in concreto questo “nucleo irrinunciabile” di salute, non ha senso che Regioni, Università, Ordini professionali impieghino risorse economiche, tempo e personale per promuovere terapie non validate dalla scienza. Eppure questo talora accade. Per esempio le cd. “cure omeopatiche”, prive di qualsiasi validazione scientifica, sono oggetto di corsi proposti da alcuni dipartimenti universitari, vengono finanziate da alcune regioni e sono tollerate dall’Ordine dei medici (purché – ça va sans dire – somministrate da un medico…).
La salute come interesse della collettività. L’esempio dei vaccini.
Secondo l’art. 32 della Costituzione, la salute non è soltanto un “diritto dell’individuo”, ma anche un “interesse della collettività”. La prima ragione di ciò è evidente: mantenere un elevato grado di “benessere fisico e psichico” della popolazione è utile a tutti noi, all’economia, più in generale all’armonia della nostra comunità di persone. Ma vi è di più. L’importanza anche “collettiva” della salute può talora giustificare trattamenti sanitari obbligatori, come per esempio, nei casi strettamente previsti dalla legge, alcuni vaccini. Lo ha riconosciuto recentemente la Corte costituzionale, respingendo un ricorso della Regione Veneto, che si era appunto lamentata dei vaccini obbligatori (Corte costituzionale n. 5/2018). Naturalmente la legittimità di queste misure estreme viene subordinata ad una serie di condizioni, quali: circostanze tali da richiedere un “patto di solidarietà” tra cittadino e stato; ragionevolezza scientifica.
Personalmente ritengo che, prima di ricorrere ad un trattamento sanitario obbligatorio, possano essere esplorate altre strategie, come quella della raccomandazione, attraverso sistemi di “spinta gentile” (“Nudging”, secondo la fortunata espressione di un volume di Sunstein e Thaler).
Il “rispetto della dignità umana” (“Dignità della persona”)
La nostra Costituzione non usa le parole a caso. Ebbene, una sola volta essa utilizza l’espressione “In nessun caso”. Ciò accade proprio nell’art. 32, quando viene introdotto il concetto di “dignità della persona”: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questa disposizione è stata valorizzata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 21748/2007) nel noto caso di Eluana Englaro, al fine di consentirle, dopo molti anni, la sospensione di alimentazione ed idratazione forzata. Ciò è avvenuto proprio sulla base della dimostrata concezione di “dignità della persona” che era stata propria di Eluana durante la sua vita attiva. E’ interessante come in questo modo il Collegio di giudici (allora presieduto da Gabriella Luccioli) abbia accolto una concezione in parte relativista di dignità della persona: aveva ragione Protagora, “l’uomo” – la persona – “è misura di tutte le cose”.
Verona, 29 marzo 2020
Fonti. Corte costituzionale n. 85/2013 sul caso ‘Ilva’; Corte costituzionale n. 5/2018 sui vaccini obbligatori; Corte di Cassazione n. 21748/2007 sul caso di Eluana Englaro; Thaler e Sunstein, La Spinta Gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, 2009; Platone, Protagora.
DISEASE X
di Carlo Saletti, storico e regista teatrale
In risposta all’epidemia di Ebola verificatasi nel 2014, l’Organizzazione mondiale della sanità ha varato l’anno successivo il progetto “R&D Blueprint for Action to Prevent Epidemics” per definire strategie di riduzione del tempo richiesto tra individuazione dei focali virali e la messa a punto di vaccini, al fine di ridurre drasticamente il tempo di attesa per la sua somministrazione, riconoscendo che “una grave epidemia internazionale potrebbe essere originata da un agente patogeno attualmente sconosciuto in grado di causare malattie umane”. L’attenzione andava focalizzata sulle malattie infettive emergenti (EID,Emerging infectious disease), da individuare nella fase preliminare del progetto. L’anno successivo venivano stilato un elenco di sette malattie, riconosciute come “malattie prioritarie del progetto”.
Nel febbraio del 2018, l’OMS attribuiva il nome segnaposto Disease X a sindromi causate da un patogeno ancora sconosciuto, che avrebbe potuto essere all’origine di un contagio su scala globale a breve termine. Quando, nei primi giorni del 2020, è apparsa in Cina centrale un’infezione polmonare provocata da un agente non identificato, i ricercatori hanno convenuto che potesse trattarsi di Disease X.
Custoza, 3 aprile 2020
DISTACCO
di Chiara Mortari, psicoterapeuta e docente unibs
Molte ricerche comparate evidenziano come alcuni aspetti del comportamento sociale abbiano una matrice comune in diverse specie animali e nell’uomo: le teorie più famose e accreditate riguardano gli studi condotti da John Bowlby (Londra, 26 febbraio 1907 – Isola di Skye, 2 settembre 1990) sul significato che l’attaccamento alla madre -o alla figura di attaccamento – e la separazione del figlio assumono negli animali e nell’uomo (angoscia di separazione). Le ricerche indicano che la separazione provoca disagio che si intensifica in un ambiente estraneo. Si susseguono reazioni di protesta, disperazione infine interviene il
distacco: uno stato di disinteresse emotivo, temporaneo se la separazione non è troppo lunga.
Il distacco quindi, così come la protesta e la disperazione rappresenta un tipo di reazione interpretato in psicoanalisi nei termini dell’angoscia di separazione, del dolore, del lutto e della difesa. L’isolamento e il distacco fisico ed emotivo determinato dal diffondersi del Coronavirus, così come la paura e la solitudine che ne derivano sono diversi aspetti della nostra socialità che hanno connotazioni biologiche-evoluzionistiche che vanno considerate alla luce dei nostri bisogni di inclusione, che possono fornire spiegazioni di comportamenti sociali umani, cure parentali e affettive, e forse alcuni aspetti d’altruismo.
Mantova, 13 aprile 2020
DISTANZE
di Alberto Bonomi, docente di storia e filosofia
Distanziamento. Distanza. Didattica a distanza. Tenere le distanze. Sentirsi a distanza. Sentirsi distanti. Farsi distanti. Essere distanti. Abitare distanti. Amare a distanza. Ognuno ha declinato come ha potuto la regola del distanziamento impostaci da questi tempi di coronavirus. A volte la distanza era di un metro, nelle file dei supermercati; a volte era di kilometri, quando una persona cara non abitava con noi; a volte era infinita, quando ci guardavamo nello specchio e forse non trovavamo quello che ci aspettavamo. Chi è questo qui? Sono veramente io? Con queste occhiaie? Queste rughe? Quest’espressione? Mi dev’essere sfuggito qualcosa; da dove sono spuntati questi peli nelle orecchie? Anche l’anno scorso ero così stempiato? Quand’è che sono invecchiato?
Allora mi do una sistemata, mi taglio in peli in eccesso, mi sistemo i capelli in modo che nessuno si accorga di niente, ed esco. Aspetta, quasi dimentico la mascherina. Vado a fare la spesa, tanto per cambiare.C’è fila, tanto per cambiare. Aspetto ‒ pensate quanto abbiamo allenato la nostra capacità di pazientare in questo periodo, dovremmo metterlo nel cv: “sono dotato/a di un’inesauribile capacità di adattamento, resilienza e pazienza in qualsiasi contesto lavorativo e/o esistenziale e/o epidemiologico. P.s. sono sopravvissuto alla quarantena senza sbroccare. Neanche una volta”.
Dicevo, sono in fila che aspetto, e osservo. C’è poco da ascoltare, la mascherina impedisce un’emissione comprensibile di suoni e la distanza di un metro rende superflua ogni parola non strettamente necessaria. Allora guardo gli occhi. E altri occhi mi guardano. E ogni sguardo mi chiede qualcosa, dietro ogni viso è raccolta una storia, che posso immaginare. Sei sola? Hai ancora un lavoro? Come stanno i tuoi? Quanti anni hai? Qual è il tuo libro preferito? Il colore? Dove vivi? Sei felice? Come passi le tue giornate? Cos’è che ti manca di più della vita di prima? Cos’è che ti manca di meno? Cos’è che ti mancherà della vita di adesso, quando tornerai alla vita di prima? Gli occhi da dietro le mascherine sorridono, mi guardano, si spostano, colmano le distanze, per un momento gli abissi fra le anime fanno meno paura. Poi guardo avanti e vedo che la fila si è spostata. Bisogna andare avanti.
Verona, 3 maggio 2020
DPCM
di Stefano Dindo, avvocato
DPCM è un acronimo che sta per “Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri”. E’ una parola divenuta familiare per gli italiani durante la crisi sanitaria, perché collegata ai provvedimenti adottati dal governo, per fronteggiare la crisi. Ma cos’è un “DPCM” e quali sono, in diritto, le conseguenze della sua adozione?
Per rispondere è necessario inquadrare brevemente le fonti normative del nostro ordinamento e la gerarchia tra le stesse. Al vertice troviamo, naturalmente, la carta costituzionale; più sotto le “leggi e atti aventi forza di legge”; questi ultimi possono essere o “decreti legge”, adottati ai sensi dell’art. 77 della Costituzione in presenza di situazioni di urgenza e che decadono se non sono convertiti dal Parlamento in legge entro 60 giorni dalla loro emanazione, oppure “decreti legislativi” che danno attuazione a leggi quadro approvate dal Parlamento e che devono quindi rispettare i principi generali contenuti nelle leggi quadro.
Più sotto ancora troviamo i “regolamenti” che a loro volta, devono rispettare quanto dispongono le leggi o gli atti aventi forza di legge e che, quindi, hanno una loro validità se ed in quanto siano “coperti” dall’esistenza di una legge o atto avente forma di legge, che comunque non possono violare.
Questi regolamenti vengono approvati, a seconda dei casi, con decreti ministeriali quando l’autorità che li emana, per delega contenuta nella legge o in un atto avente forza di legge, è un ministro che ha competenza su di una determinata materia, oppure con Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DCPM); quando l’autorità che li emana (per delega contenuta in una legge o atto avente forza di legge) è il Presidente del Consiglio dei Ministri. Attenzione, quindi, a non confondere “decreto legge”, che è atto di rango uguale a quello di una legge (che però deve essere convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni), con i decreti ministeriali o del Presidente del Consiglio, che sono norme sotto ordinate alle leggi e agli atti aventi forza di legge e non possono, quindi, contenere norme in contrasto con le stesse.
Qual è stata o è, allora, la base giuridica dei vari DPCM che si occupano di coronavirus?
Il primo decreto legge del 23.2.2020 che si è occupato di “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologico a da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale” è il n. 6 del 23.2.2020. E’ già in questo decreto legge che si dispone che “le autorità sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento adeguata e proporzionale all’evolversi della situazione”, nell’ambito di quelle elencate nel dettaglio contenuto nell’art. 1 di detto decreto. E’ in tale norma che, per la prima volta, sono elencate una serie di misure quali la possibilità di limitare la circolazione delle persone, di chiudere strade, parchi, aree gioco, giardini, la creazione di zone rosse, il divieto assoluto di allontanarsi dall’abitazione per le persone in quarantena ecc.
Vari DPCM hanno poi dato attuazione al decreto legge, modulando e dettagliando le misure, anche sotto il profilo tecnico, nella cornice tracciata da questo decreto legge del febbraio del 2020.
Si sono poi succeduti altri decreti legge a ritmo incalzante. Ciascuno di questi decreti conteneva l’apposita delega a darvi esecuzione con regolamenti da approvarsi mediante “DPCM”.
Verona, 20 aprile 2020
Dottor Semmelweis
Louis-Ferdinand Céline , 1924
di Tommaso Tuppini, docente di filosofia, univr
Disinfettatevi le mani, chiedono le madri, i ministri, i professori, ai figli, ai sudditi, ai sani, perché la vita deve difendersi, continuare, ricominciare, ma se le madri, i ministri, i professori l’hanno scampata, lo devono a qualcuno che non è dei loro.
La febbre puerperale ne uccideva ogni anno a centinaia e Semmelweis capì che la colpa era dei medici perché negli anfiteatri sezionavano i cadaveri e in ostetricia imponevano le mani contaminate sul capo delle madri. Pasteur era ancora un ragazzo e Semmelweis lottava da solo contro i batteri, di cui nessuno sapeva l’esistenza, e l’imbecillità degli uomini, di cui ignorava le proporzioni. I colleghi gliela giurarono, non volevano passare per assassini. Il libro dello studente Louis Destouches non è una tesi di laurea più di quanto i libri di Céline sono racconti. Gli intellettuali hanno delle tesi e ci tengono a raccontarle, Semmelweis e Céline non hanno tempo, sanno soltanto questo: perché le vostre mani siano monde, le nostre diventeranno lorde. Infatti è scritto: se oserai farti specchio per i tuoi fratelli, verrai infranto. Ed è anche scritto: se insegnerai loro a vedere nelle tenebre, ti salteranno agli occhi come gatti. La Verità senza fronzoli ed egoismi è imperdonabile: per due che l’hanno trovata, ce ne sono mille che vogliono accopparli.
La lega dei chierici li farà mettere sotto chiave, manicomio alla periferia di Vienna, prigione in Danimarca, botte tutti i giorni, mentre Tartre e i decani degli istituti ospedalieri si ubriacano di vittoria e libertà. Poi vennero gli uomini pieni di virtù, avevano qualche metro di corda per trascinarli nella piazza dove si celebrano le sante nozze fra il Bene e la Forca. Ma fu inutile, ci avevano già pensato loro a morire di genio e di mistero. Si erano infettati di microrganismi e solitudine per mostrare agli assassini cos’è la salute e per cantare.
Trattato clinico, musica contro il mondo, la voce di Semmelweis, la voce di Céline, è «avida d’impossibile», luminosa come muscoli di ballerina, scaglie di serpente, cloruro di calce. I nemici non sono riusciti a soffocarla. E noi ancora viviamo, e noi ancora la ascoltiamo.
Verona, 18 aprile 2020
Bbibliografia. Louis-Ferdinand Céline, Il dottor Semmelweis, tr. it., Adelphi, Milano 1975; Ignaz Philpp Semmelweis, Come lavora uno scienziato: eziologia, concetto e profilassi della febbre puerperale, tr. it., Armando, Roma 1977
DRESS CODE
di Gian Arnaldo Caleffi, architetto
Quale sia l’abito da indossare nelle occasioni formali e no è ormai codificato.
Mai indossare la dinner jacket, altrimenti detto smoking, prima delle 18:00, la giacca sempre più scura dei pantaloni, ad eccezione dello smoking color cammello, mai la pochette della stessa stoffa della cravatta, il polso della camicia deve uscire almeno 1 cm dalla manica della giacca, e tante altre regole che distinguono l’uomo elegante dall’uomo sciatto e banale. E per le donne niente di meno.
Anche le occasioni informali hanno una propria “regolamentazione”, anche se il casual sembra, ma non lo è, assenza di codici. Con l’abito presentiamo noi stessi al nostro interlocutore, stabiliamo le regole del comune interagire. E nello smart working del dopo Coronavirus?
Le call avvengono da casa, spesso dal soggiorno, a volte dal letto o dal divano, ed interagiamo in video con colleghi di lavoro, clienti, amici, referenti vari. E il dress code adeguato qual è? Mi devo mettere la giacca e la cravatta se comunico con un referente istituzionale o con un cliente col quale ho rapporti formali? Da casa? Seduto sul divano? O al tavolo della cucina? Basta la giacca elegante e posso non indossare anche i corrispondenti pantaloni, visto che a video non si vedono? Posso prendere insegnamento dalla mitica trasmissione TV sull’allunaggio del 20 luglio 1969 quando Tito Stagno condusse la trasmissione con un’inappuntabile giacca-e-cravatta sopra la scrivania, ma in mutande sotto, tanto faceva caldo?
E se mi preparo alla conference call vestito di tutto punto e poi gli altri interlocutori sono tutti in tuta, che figura ci faccio? Anche nel caso contrario, ovviamente.
Altro dettaglio da non trascurare: visto che le stirerie sono chiuse e la colf non viene, la lavatrice abbiamo imparato a farla andare, così possiamo indossare camicie perfettamente pulite. Ma dobbiamo anche stirarle? E perché? Siamo solo in famiglia…. Infatti in alcune call si vedono, un po’ sfuocate, le camice avvizzite dei nostri interlocutori. Poi, se devo sembrare “operativo”, sempre teso e pronto sul pezzo, un accessorio non deve mai mancare: la mascherina annodata sulla nuca e calata sotto il mento. Da una sensazione di impegno e di dedizione al bene comune. Comunque devo tenere conto del fondale scenico, non posso rischiare di far intravedere la lavastoviglie sullo sfondo del gessato d’ordinanza.
Dobbiamo inventarci un dress code adeguato, un po’ formale, ma non troppo, comodo, ma non sciatto, rassicurante, ma non trascurato.
Ragazzi, siamo all’alba di una nuova eleganza!
Verona, 24 marzo 2020
Bibliografia: Chiara Boni e Luigi Settembrini, Vestiti usciamo. L’eleganza maschile, ma non solo, 1986.
DRESS CODE PUBBLICITA’
di Gian Arnaldo Caleffi, architetto
La pubblicità fa leva spesso, anzi molte volte, anzi quasi sempre, sull’erotismo.
Erotico è il messaggio subliminale che veicola la reclame di molti prodotti, motori ed abbigliamento in particolare,
Analizziamo questa pubblicità di jeans nel Tempo del Coronavirus:
“….. relax sul divano senza farsi trovare impreparati ad una Skype call con il capo…..”
Cosa c’è di erotico in questo messaggio? Il ragazzotto emaciato, buono per tutte le inclinazioni sessuali? Nooo, troppo banale, casomai ha qualcosa di esplicito, che è meno efficace del subliminale.
Il denim? Non evidenza gli attributi che le altre pubblicità di jeans sparano in primo piano. E allora?
Ma è l’associazione del relax sul divano con la Skype call che rende perfetto per le avventure di ogni giorno il denim del capo di abbigliamento pubblicizzato.
Ognuno di noi ha ricordi di gioventù legati al divano, quando iniziammo la più bella avventura della vita.
Ecco il messaggio: anche al tempo del Coronavirus la vita può essere eccitante, con un paio di jeans lo è di più.
Verona, 27 marzo 2020
DUECENTO METRI
di Fiamma Lolli, traduttrice
Duecentosettantuno
Il passo è un’antica unità di lunghezza romana.
Essa corrisponde all’incirca alla distanza percorsa con un passo (“passo semplice”)
o, più comunemente, due (“passo doppio”):
il “passo semplice” (in latino gradus) corrispondeva a 2,5 piedi, cioè 74 centimetri circa;
il “passo doppio” (in latino passus) corrispondeva a 5 piedi, cioè poco meno di 150 centimetri.
Il miglio romano corrispondeva a mille passi doppi, cioè circa 1482 metri.
Uno, due: e un metro e mezzo è fatto. Tre, quattro: poco meno di tre metri. Li conta uno per uno, come da piccola per giocare a campana. Solo che ora non c’è alcun disegno col gesso, nessun sasso da tirare, nessun saltello da fare – gambe aperte, gambe chiuse, su un piede solo – per raggiungere l’ultima casella senza perdere l’equilibrio.
Cinque, sei: quattro metri e rotti. Coraggio: sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici, tutti di fila e niente, non ne ha percorsi ancora neanche dieci. Uno ancora, eccolo: mille e trentasei centimetri, ancora un palmo e sarà all’angolo. E poi? Poi girerà a sinistra e ricomincerà a contare. Non continuerà, no, ripartirà da uno, perché la prima parte è stata facile ma la strada, quella vera, si aprirà ora o mai più. E nessuno potrà farlo al posto suo.
“Vado a fare la spesa. Sì, ho la lista. Sì, ho scritto tutto. Sì, anche il vino, certo. No, non ho messo il rossetto, che rossetto vuoi che metta con la mascherina? Certo, ho gli occhiali da sole. Ci mancherebbe, stai tranquillo, vado e torno.”
È all’angolo: quante volte ha girato a destra e poi dritto fino alla panetteria, e di seguito il macellaio, la bottega di alimentari e l’ultima tappa, il vinaio, non sia mai manchi il rosso da mettere in tavola subito, ancor prima di mangiare, e che resti per ultimo, anche dopo che avrà sparecchiato e servito il caffè, fino a che non sarà stato bevuto fino all’ultima goccia. E poi. E poi, il solito.
Prima di ricordare che ha svoltato a sinistra, oggi, e non a destra, per un attimo si stupisce di non trovare la panetteria. La forza dell’abitudine, che espressione idiota. Ma quale forza e forza!
Trenta, cinquanta, cento. É quasi a metà strada. Centocinquanta, uno, due, tre, centosessanta. Gli ultimi passi sono i più difficili, come da bambina: ce la farà? Non lo sa: sa solo che deve farcela, deve, fino all’ultimo.
Conta, lei che sente di contare così poco. Centonovantasette, duecento dieci, duecento venti; uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette. Gliene servono ancora una ventina, a occhio e croce: e se li prende. Suona, le aprono. Entra. Si guarda intorno. Le va incontro una persona vestita normalmente.
“Buongiorno, mi dica.”
Non dice. Si toglie la mascherina e gli occhiali da sole, lascia cadere la giacca a terra, tira su la manica e scoppia a piangere. Non riesce a parlare. I lividi sulle braccia, il taglio sulla bocca, l’occhio semichiuso e gonfio parlano al posto suo.
La fanno accomodare, si attaccano al telefono e le portano un bicchiere d’acqua. I fazzolettini di carta no, grazie, quelli li ho in tasca, ce li tengo sempre.
I passi sono bastati.
Livorno, 20 aprile 2020
EROE
di Pierluigi Senatore, giornalista e direttore di Radio Bruno
In queste settimane di quarantena forzata e di attenzione mediatica tutta rivolta al coronavirus, il famigerato Covid-19, ci sono termini che quotidianamente entrano nelle nostre case come ad esempio sacrificio ed eroi. Il sacrificio di chi è malato, di chi deve stare in casa, della lontananza dai propri cari e poi eroismo. Nell’opera “Vita di Galileo Galilei” Bertold Brecht fece dire al grande scienziato del 1500 “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”. Ma chi è l’eroe? Attualmente c’è un vero e proprio abuso del termine “eroe”. Oggi tutti sono un po’ eroi. Il nostro è un Paese strano, chi fa il proprio dovere è un eroe, sempre e comunque. Questo ci porta a pensare che fare il proprio dovere in questi tempi è diventata un’eccezione, un momento straordinario e quindi eroico. In Wikipedia “L’eroe, nell’era moderna, è colui che, di propria iniziativa e libero da qualsiasi vincolo, compie uno straordinario e generoso atto di coraggio, che comporti o possa comportare il consapevole sacrificio di sé stesso, allo scopo di proteggere il bene altrui o comune”.
E quindi sono eroi chi lavora negli ospedali, i volontari, i dipendenti dei supermercati, gli edicolanti, gli autisti dei furgoni, chi muore in un incidente stradale spesso applaudito al funerale come fosse, appunto, un’ eroe, chi corre per 90 minuti dietro un pallone e via dicendo. E’ chiaro che in certi casi fare il proprio dovere supera i limiti imposti, ma spesso il lavoro che ci scegliamo ci impone delle scelte e dei sacrifici. Falcone e Borsellino non sono eroi o martiri, ma persone che facevano il loro dovere quotidianamente. Troppo spesso usiamo l’alibi dell’eroe come una foglia di fico. “Io non potrei mai fare – ci raccontiamo spesso – quello che hanno fatto Falcone e Borsellino, perché siamo persone normali e non “eroi” assolvendoci perché “noi” siamo persone comuni. Spesso l’eroismo viaggia in parallelo con il mito. L’eroe è colui che con abnegazione e straordinario coraggio, si sacrifica per un’ ideale. In passato il valore militare era considerato una virtù di pochi e quindi l’eroe poteva essere il guerriero come Achille. In epoca romana al valore militare si affianca la pietas latina il cui esempio più famoso è Enea, protagonista ed eroe dell’Eneide di Virgilio. Con il cristianesimo per divenire eroi si deve aggiungere il concetto di purezza. Oggi si valuta il connubio azione-ideale , valutare cioè quanto coraggio e abnegazione sono necessari per la salvaguardia di un’ideale, infatti, per la valutazione del coraggio-abnegazione non si presentano molte problematiche, i valori sono standardizzati e anche la loro percezione seppur con sfumature oggettive; maggior ostacoli si hanno nella valutazione del giusto Ideale. Ed è per questo che il termine “eroe” viene negato ed è oggetto di discussione ideologica e spesso usato a sproposito. Se siamo tutti eroi, nessuno è un eroe. Fare il proprio dovere sempre e comunque è diventato eroico anche se dovrebbe essere la normalità. Vivere è già un atto di eroismo.
Carpi (MO), 9 aprile 2020
ESEQUIE
di Elena Alfonsi, critico dell’arte
Cesare Ripa nel libro a cui si dedicò per circa trent’anni della sua vita, “Iconologia”, scrive di Camillo Filippi, detto Camillo da Ferrara. Lo definì “Pittore intelligente“ per come dipinse la morte, riprendendo fedelmente il volume delle pitture di Anton Francesco Doni che cita esplicitamente Petrarca. “La Morte è fin d’una prigione oscura/a gli animi gentili, a gli altri è noia,/che hanno posto nel fango ogni miglior cura”. Ed è alludendo al vestimento che afferma: “E perché molto ci preme nel viver Politico la Religione, la Patria, la fama, e la conservazione delli stati, giudichiamo esser bello il morire per queste cagioni, e ce la fa desiderare il persuaderci che un bello morire tutta la vita onora”.
Un passo contenuto all’interno del più vasto repertorio delle immagini allegoriche adottate nelle arti figurative. Il prodotto di una cultura che desiderava creare una morale laica facendo uso, con sensibilità classicista, dell’autorità dei grandi scrittori del passato. Parole in cui “l’isolamento sociale del morire affidato al linguaggio delle tecniche mediche” non esisteva ancora e gli estremi onori resi al defunto, specificatamente relativi a quanto prescrive il rito religioso, erano strettamente connotati dai propri simboli. Occidente e Oriente in questo tragico momento della storia dell’Uomo si trovano ad affrontare la necessità di seppellire o cremare i tanti cadaveri dovuti alla morte per Coronavirus con le stesse modalità.
Claude Monet il 5 Settembre del 1879 reagì con la pittura al dolore per la morte della sua amata Camille. Scrisse: “I miei occhi erano rigidamente fissi sulle tragiche tempie e mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali. Toni blu, gialli, grigi, che so.” Guardò la moglie morire per osservare il trascolorare dell’epidermide sul volto. La ritrasse con furore pittorico a pennellate di colori che scaturivano dal proprio animo sconvolto. Il corpo di Monet rispose automaticamente allo choc e, lasciandosi attraversare dalle emozioni, con l’uso del colore prese coscienza della sua morte. Così facendo fissò per sempre il volto di Camille sulla tela e ne accettò la perdita.
Ora in questa antica terra, nell’agghiacciante silenzio di città semideserte, l’uomo patisce il definitivo distacco da corpi che ama, sottratti nudi alla vita. Rinchiusi entrambi, noi e loro, e per sempre privati dallo scambio degli ultimi sguardi, gesti e parole in un tempo interrotto tragicamente; lontano dagli altri ma anche lontano da noi.
Levata di Curtatone (MN), 24 marzo 2020
Bibliografia. Cesare Ripa, Iconologia, 2012, Torino, Giulio Einaudi Editore; Francesco Petrarca Triunphus Mortis, II, 34-36; Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta; Ines Testoni, L’ultima nascita.Psicologia del morire, Dad Education, Bollati Boringhieri, Torino, 2015
FALSE NOTIZIE
di Carlo Saletti, storico e regista teatrale
La falsa notizia ha piede veloce, come avevano spiegato Gioacchino Rossini e il librettista Cesare Sterbini in una delle arie più amate dell’opera italiana. “La calunnia è un venticello” destinato a trasformarsi in un fragoroso temporale. Poco più di cent’anni dopo, nelle sue Réfléxion d’un historien sur les fausses nouvelles de la guerre (Riflessione di uno storico sulle false notizia della guerra), Marc Bloch avanzava alcune considerazioni sui meccanismi che portano alla costruzione e alla circolazione delle false notizie. Erano gli stati d’animo collettivi – osservava il grande storico, riferendosi a esperienze vissute pochi anni prima nelle trincee del fronte occidentale – a consentire a pregiudizi di trasformare in leggenda una cattiva percezione. E sottolineava che “si crede facilmente a ciò a cui si ha bisogno di credere”.
L’esposizione alla paura amplifica il diffondersi di false notizie e la paura è uno dei sentimenti che dominano queste settimane. Il virus si trasmette da persona a persona come le false informazioni da dispositivo a dispositivo – non a torto attribuiamo loro la natura ‘virale’. Nei primi giorni di marzo, ha preso a circolare sui social network e presso le community la notizia secondo cui dietro all’arrivo in Europa di un contingente di militari statunitensi, impegnati nella esercitazione “Defender’ Europa 2020” (che l’evolversi dell’epidemia a livello continentale ha successivamente costretto a interrompere), si nascondessero finalità inconfessabile e sconvolgenti, come la progettata aggressione alla Russia e l’occupazione da parte americana dell’Europa. In questo caso non è stata tanto una falsa notizia (ogni enunciato falso che produca effetti di verità) a essere diffusa, quanto l’interpretazione tendenziosa di una serie di dati fattuali.
Assai sovente, false notizie e false interpretazioni sono parte costitutiva di un discorso complottista, volto a farci “pensare che dietro a ciò che ci preoccupa si celi un segreto e che l’occultamente di questo segreto costituisca un complotto ai nostri danni”, nelle parole con cui lo sintetizza Umberto Eco. Esemplare, a questo riguardo, quanto capitato il 25 marzo. Un servizio del Tgr Leonardo di cinque anni fa, che faceva riferimento a un Coronavirus ingegnerizzato in un laboratorio segreto cinese, ha iniziato a diffondersi via WhatsApp sui cellulari di tutti noi. Nonostante la ricerca sulle origini del virus siano uno dei temi di interesse primario su cui si è concentrata la comunità scientifica in queste settimane e le ultime evidenze lo abbiano escluso – in particolare l’articolo apparso sulla rivista Nature il 17 marzo scorso – ciò non ha impedito a leader politici di rilanciare il video, dando ancora più visibilità a una sua lettura dichiaratamente complottista. Quella del virus ingegnerizzato è solo l’ultima delle leggende che hanno avuto, come immediato effetto, di aumentare la tensione. E possiamo dirci certi che non dovrà trascorrere molto tempo, perché essa diventi la penultima.
Custoza (VR), 26 Marzo 2020
Bibliografia. Gioacchino Rossini, Il Barbiere di Siviglia. Opera completa per canto e pianoforte, Ricordi, Milano, 2006; Marc Bloch, Réfléxion d’un historien sur les fausses nouvelles de la guerre in “Revue de synthèse historique”, n. 33, 1921, (traduzione italiana in Marc Bloch, La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma, 2004); Umberto Eco, “La sindrome del complotto” in 11/9. La cospirazione impossibile, a cura di Massimo Polidoro, Piemme, Casale Monferrato, 2007.
FAME
di Carlo Benfatti, storico e folklorista.
Primo Levi in una delle ultime pagine de I sommersi e i salvati dice: « E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire…». Frase lapidaria e nel contempo tremenda che riassume il suo trascorso indicibile nel lager di Auschwitz. E’ chiaro che si riferiva alla deportazione nazista voluta da un regime dittatoriale che conduceva la persecuzione razziale, nonché l’assoggettamento se non la distruzione di altri popoli considerati di razza inferiore. Si riferiva oltretutto a ciò che accadeva di inaudito nei numerosi campi di concentramento in Germania e in Polonia, situazione che si sarebbe potuta replicare in futuro venuti meno i diritti fondamentali del cittadino e la coesistenza pacifica tra i popoli.
In quei luoghi avveniva intanto lo sfruttamento umano in faticosi lavori sino alla morte, se non l’eliminazione immediata nelle camere a gas, poi imperversava la mancanza di alimenti sufficienti per il sostentamento dei prigionieri. In altre parole in quella realtà concentrazionaria vi era la fame che tormentava giorno e notte le centinaia di migliaia di deportati. Stesso riferimento alla fame nei campi di prigionia lo fa Piero Caleffi nel suo libro Si fa presto a dire fame, testimonianza della sua militanza politica in opposizione al fascismo ma anche acuto osservatore di quanto succedeva a Mauthausen, luogo di orrore e di dolore umano. Verso la fine del libro l’autore descrive il dialogo fra i compagni di reclusione prossimi alla liberazione e quindi al ritorno in patria. In mezzo all’euforia del momento uno di questi, Bepi Calore, piuttosto scettico di fronte all’entusiasmo dei compagni, dice: «Quante cose abbiamo capito ora, cose che prima sapevamo soltanto. Si fa presto a dire fame, ma pensate ai delitti che la fame ha compiuto là dentro. Non ha solo ammazzato dei corpi, ma ha ucciso pensiero, religione, pietà, bontà, tutto». Vale a dire che l’uomo ridotto agli estremi dalle privazioni e dalle sofferenze fisiche e spirituali, perde spesso quello che ha di più nobile nel suo animo e nella sua mente.
In tutti questi anni che ci separano dalla fine della Seconda guerra mondiale la messa in guardia di Levi dai regimi totalitari che hanno segnato le dittature del passato, purtroppo è stata disattesa. Infatti in alcuni stati del mondo sono saliti al potere governi che hanno praticato il terrore e la persecuzione nei confronti dei dissidenti e, quel che è più grave, hanno ridotto la popolazione a vivere di stenti e precarietà, fino a patire la fame. Se oggi la fame è presente in varie parti del mondo a causa del cambiamento climatico, dello sfruttamento delle risorse umane e materiali da parte delle cosiddette multinazionali, di certi governi che mal amministrano i loro popoli, nondimeno ora viene percepita anche nelle nazioni europee in cui vigono la democrazia, il riconoscimento dei diritti umani e un diffuso well-fare.
In questi giorni il precario sostentamento è causato da una terribile pandemia, iniziata già da qualche mese, che non solo miete vittime, ma induce le autorità responsabili con varie ordinanze a chiudere negozi, esercizi, strutture turistiche e stabilimenti creando una moltitudine di gente senza lavoro. ale chiusura-precauzione, il cosiddetto lock-down, blocca la produzione di beni e consumi, salvaguardando, per fortuna, le filiere agro-alimentari. Tuttavia in alcune zone particolarmente colpite dal virus del covid-19, certe famiglie soffrono letteralmente la fame. Queste a volte si rivolgono allo Stato per chiedere aiuti straordinari, altre fanno appello agli enti assistenziali per avere almeno un po’ di cibo. Benemerite in questo momento la Caritas e altre organizzazioni che provvedono a far recapitare alle famiglie bisognose viveri e beni di conforto.
E’ comparso il flagello della fame: sembra un paradosso nelle società occidentali, da sempre riconosciute avanzate, ricche, opulente, eppure si è presentato inaspettato, travolgente; un fenomeno pressoché dimenticato o relegato negli anni del secondo conflitto oppure nell’immediato dopoguerra. Si pensi che durante quel periodo di miseria la gente era ridotta a mangiare per sopravvivere perfino gli animali selvatici, tipo porcospini, lumache e batraci delle acque stagnanti. Se poi andiamo indietro nei secoli, allorché una città o anche un villaggio, venivano sottoposti ad assedio, e qui abbiamo molte testimonianze, topi e pantegane venivano cacciati e cucinati.
In questi giorni molte immagini della TV ci mostrano famiglie che strette dal bisogno per mancanza del lavoro, ricevono pacchi di vettovaglie sia da privati benefattori che dai servizi umanitari. Ma questo non succede solo in Italia, ma anche nelle città degli Usa il cui popolo per antonomasia è sempre stato ritenuto ricco e benestante.
Ecco ciò che ha provocato l’epidemia corvid-19 nel mondo. Alcuni stati come l’Italia, sia pure con difficoltà e ritardi nel rispondere con adeguati mezzi sanitari, hanno risposto efficacemente alla diffusione del morbo, ma altri hanno sottovalutato il pericolo riconoscendone solo tardivamente i nefasti effetti in vittime, squilibri psicologici dei cittadini e ripercussioni sociali ed economiche.
Mantova, 17 aprile 2020
Bibliografia. P.Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986. Caleffi, Si fa presto a dire fame, Milano, Mursia, 1968. Carpi, Diario di Gusen, Milano, Garzanti, 1971.
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FANTASMA (IL NEMICO)
di Cinzia Bigliosi, traduttrice
Era un nemico così invisibile che nessuno lo aveva visto arrivare, così discreto che aveva occupato ogni postazione ben prima dello starnuto zero. Negli ultimi anni Spillover era stato liquidato come una lettura per paranoici, Greta come una secchiona autorizzata a parlare con i grandi, e poi via, a dormire dopo il Carosello. Sfogliare oggi i giornali che si sono accumulati nei mesi che hanno preceduto la calamità, formando pile che stanno per prendere la strada del bidone, è come guardare post mortem una cartina di tornasole: nello stesso inserto culturale di una qualsiasi domenica di un anno fa, si leggevano titoli sibillini e che avrebbero dovuto suonare la sveglia, ma il sonno della ragione, si sa, è sempre il più forte: “La difficile arte di fare previsioni, soprattutto sul futuro,” “Ippocrate messo sotto contratto,” “Quei traguardi dell’immunologia”, infine “Così il ‘celeste confine’ è divenuto ‘l’ultimo orizzonte’.”
Il 16 marzo scorso, con il bel volto livido e labbra strette come solo ai francesi è dato di avere, Emmanuel Macron pronuncia quello che, più di un discorso alla nazione, suona come un mantra militare. Simile al pifferaio magico, sfida la telecamera con lo sguardo, non abbasserà mai gli occhi, e scandisce regolari e chiare ripetizioni, nelle quali definisce i propri connazionali per sei volte consecutive ‘compatrioti.’ Prima della diretta Macron ha consegnato uno scritto che poi stravolgerà con la solita rapidità d’eloquio, mandando in tilt il povero sottotitolatore, sbranato il giorno dopo dalla satira di radio e giornali. Quella del presidente è una chiamata alle armi e, per risultare più credibile e incisivo, decide di andare a braccio: incisterà ogni frase di patriottismo deciso, illustrato da movimenti delle mani più meridionali che gallici, ma l’usuale sciovinismo è morso da un’inedita paura. “Siamo in guerra. Non contro una nazione, ma contro un nemico invisibile e inafferrabile,” e lo ribadisce sette volte, numero non casuale, atto a sottolineare la situazione unica, anche perché, fino ad allora, invisibile nelle battaglie era stata solamente Sue, la moglie del supereroe Mister Fantastic.
Oggi, invece, gli stati, tutti lancia in resta, devono difendersi, mobilitando ogni mezzo e potenza contro un nemico che non ha volto, non ha profilo, non ha corpo, eppure si trova ovunque e, dulcis in fundo, mostra di avere una resistenza da fare invidia a Penelope. Anche il napalm ha una sua presenza, non si vede, ma ha un suo fetore inconfondibile, l’“odore di vittoria.” Lui no, eppure è un assassino abile e potente; all’inizio sembra anche preciso, matematico nella scelta delle vittime in base all’età e al sesso, poi il gioco gli piace, i muri cadono e, dilagando, si esalta. In un batter d’occhio si lascia alle spalle cadaveri e colpevoli, archiviando quelle che erano abitudini ataviche: d’ora innanzi, l’uomo mascherato non sarà più il cattivo, e forse non sarà più illegale indossare il burka. Anche nei costumi sentimentali, prima d’oggi l’invisibilità non era mai stata nemica dell’uomo, ma ad appannaggio dell’amore infelice, come quello del canto dell’usignolo nascosto tra le fronde del bosco notturno, o dell’amor cortese della poesia trobadorica che, in absentia, di lontananza e ricordi della donna amata, tesseva i versi più dolci. E allora, allons enfants, i tempi son cambiati, “lavatevi le mani e leggete, dedicatevi alla cultura,” incalza Macron nel finale; nel frattempo, noi, con mani pulite e guanti monouso, teniamo ben stretta l’elsa, come il Cavaliere in rosa, e restiamo sulla soglia a scrutare l’orizzonte, prima o poi qualcosa vedremo.
Verona, 12 aprile 2020.
Biblio e filmografia: Inserto culturale di “Il Sole 24 ore,” 20 ottobre 2019; F.F.Coppola, Apocalypse Now, USA, 1979.
FARE LA CODA
di Fiammetta Pignatti, artista
Fare la code non e` un’abitudine a cui gli italiani siano molto atti. L’abbiamo lasciata sempre agli anglosassoni, guardandoli con un misto di curiosita` e ammirazione. In Italia, si preferisce “il mucchio”, e volendo anche le spintonate. Ma ecco che la crisi del coronavirus ce l’ha portata in casa. Quando pensavamo che con la Brexit, il modello britannico si sarebbe allontanato sempre di piu`, ci troviamo ad abbracciarlo con le lunghe code nei negozi e nei supermercati. Persino un certo riserbo e una adeguata distanza ci riporta ai modi inglesi: tutti in fila composti e pazienti in attesa del proprio turno.
Per cercare di evitare il piu` possibile queste lunghe “fermate” l’ingegno digitale ci viene in aiuto. Esistono applicazioni che tracciano in tempo reale il livello di affollamento davanti ai supermercati, con
grafici e consigli. Ora viene a porsi una domanda: con la fine di questa crisi portata dal Covid-19, ci sara` anche un cambiamento abitudinale o torneremo al modello del “c’era prima io”, e del “no, tocca a
me”?
Citando Manzoni: ai posteri l’ardua sentenza.
Oxford, 31 marzo 2020
Finestra sul cortile (la)
Cornell Woolrich, 1944
di Cinzia Bigliosi, traduttrice
Cornell Woolrich (New York 1903 – New York 1968), cominciò a scrivere quando, nel 1921, una malattia non gli permise di uscire di casa per un lungo periodo. Nell’autobiografia, scrisse di essersi sentito “in trappola, come un povero insetto che, sotto un bicchiere rovesciato, tenta di arrampicarsi sul vetro, ma non riesce, non riesce, non riesce.” Come non compatirlo, oggi costretti anche noi a un forzato esercizio di clausura, pena la morte o, nel migliore dei casi, una multa. Il protagonista del racconto It had to be murder, pubblicato sotto pseudonimo nel 1942 e riproposto due anni dopo con il titolo definitivo Rear window (La finestra di fronte), è la morbosa incarnazione dell’insetto prigioniero. Limitato da un’ingessatura a muoversi “dalla finestra al letto, dal letto alla finestra”, l’infermo sopravvive alla noia dell’immobilità nutrendosi, giorno e notte, della linfa che aggrada maggiormente ogni voyeur: spiare gli altri. Il ritmo del racconto è regolato dall’alternarsi di doppi, per esempio il dentro e il fuori, l’interno sepolcrale e l’ambiguità dell’esterno, la coppia felice e quella disgraziata. La stanza di costrizione si trasforma così in una camera oscura, lo sguardo nell’obiettivo di un cannocchiale che scorre ossessivo sull’orizzonte chiuso di un cortile metropolitano. Le finestre dei palazzi di fronte offrono, come file di televisioni, la visione opaca di vite anonime.
Con una tessitura lessicale che attinge agli ambiti della prigionia, della paralisi e della perversione, Wollrich trasforma il protagonista malato in un investigatore. Usando strumenti indiziari di stampo morelliano, egli spia la quotidianità degli altri e, con i segmenti che giorno dopo giorno ne registra, costruisce storie di vita, ne immagina i sentimenti, le frustrazioni, fino a leggere gli estremi di un delitto. Nel 1954 Alfred Hitchock licenziò la trasposizione cinematografica del racconto, operando un cambio radicale rispetto ai protagonisti letterari: ritrasse un numero maggiore di dirimpettai, perlopiù artisti (una ballerina, un compositore, una scultrice, e un orologiaio, interpretato dallo stesso regista in una delle sue note mise en abyme); il cameriere del racconto lasciò il posto a due figure femminili, una massaggiatrice sarcastica e una fidanzata molto glamour, interpretata da Grace Kelly la quale, complici fotografia e costumi d’eccellenza, illumina di luce propria lo schermo e, tradendo le cupe intenzioni di Woolrich, finanche la stanza, dove giace il fidanzato (James Stewart, per una volta anche letteralmente ingessato), il quale tenta di distrarla dal progetto di farsi presto impalmare coinvolgendola nelle sue fantasie spionistiche, arrivando a convincerla che il puzzle di gesti e sigarette nel buio parla di un omicidio, non più immaginario, illogico, forse, anche se, come affermò lo stesso Alfred Hitchock, “la logica è noiosa.”
Verona, 27 marzo 2020
Bibliografia e filmografia. C. Woolrich, Blues of a lifetime. The autobiography of Cornell Woolrich, Bowling Green State University Popular Press, Ohio, 1991; La finestra sul cortile in C. Woolrich (W. Irish), Ossessione, intr. di M. Boncompagni, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1990. A. Hitchock, La finestra sul cortile (Rear window), sceneggiatura di John M. Hayes, basato sull’omonimo racconto di C. Woolrich, con Grace Kelly e James Stewart, 1954.
FOSSE COMUNI
Carlo Saletti, storico e regista teatrale
Con l’espandersi dell’epidemia di COVID-19, come mai era successo nel nostro occidente in epoca di pace, al rischio di collasso dei reparti di terapia intensiva si è aggiunta l’emergenza dovuta alla gestione delle morti in eccesso. Un aspetto del disastro ben conosciuto dai quei medici forensi che hanno avuto occasione di operare in periodi di pandemia. Lo chiarisce Ahmad Samarji, patologo libanese: “Un presupposto comunemente accettato in medicina è che i decessi non richiedono la stessa urgenza dell’assistenza ai pazienti più gravi, e ciò normalmente è vero. Tuttavia, in una pandemia come questa COVID-19 un gran numero di morti può rapidamente superare le capacità locali, se non gestito in modo tempestivo”.
Inizialmente trascurato dai mezzi di informazione, impegnati nelle prime settimane dell’epidemia a informare sulla situazione dei reparti ospedalieri sempre più impegnati a rendere disponibili posti e cure nei reparti intensivi e sub intensivi, il problema dell’accumulo dei corpi dei deceduti (che pongono tra l’altro la questione della loro carica infettiva), non ha tardato ad emergere nella sua urgenza. Ne abbiamo visto gli effetti, la sera del 18 marzo 2020, a Bergamo. Li ha descritti per il quotidiano “La Repubblica” il giornalista Paolo Berizzi: “Un’immagine da teatro di guerra: nel centro di Bergamo. Una lunga colonna di mezzi militari ferma in via Borgo Palazzo – a poche centinaia di metri dal cimitero. Sono i furgoni dell’esercito impiegati per trasportare le bare dal camposanto bergamasco verso i forni crematori di altre Regioni”.
A richiamarci alla morta seriale che si accompagna alla pandemia sono state, il 10 aprile, le riprese aeree dello scavo e dell’inumazione in una lunga fossa comune di decine di bare nel Potter’s field di Hart Island, che la città di New York utilizza dall’ultimo trentennio dell’Ottocento per seppellirvi i deceduti indigenti e i senza nome. Le fosse sono apparse dopo che lo stato di New York, che a quella data aveva accusato 7.844 decessi, era dovuto ricorrere a grandi tende mortuarie di emergenza e a decine di camion refrigerati, dove conservare provvisoriamente i corpi. Poco meno di un mese prima, il 12 marzo, “Washington Post” aveva dato conto dello scavo di due lunghe trincee – collocate in un’area del cimitero del complesso Behesht-e Masoumeh di Qom, a circa 80 miglia a sud di Teheran – individuabili nelle immagine satellitari.
Riprese effettuate con un drone dell’inumazione ad Hart Island
in fosse comuni delle bare delle vittime di COVID-19
Immagine come queste turbano, più ancora scandalizzano. La morte consumata, accompagnata privatamente dalle lacrime e divenuta pubblica con l’elencazione quotidiana del numero dei deceduti, nelle immagini mostra infine il suo volto perturbante – e, più di ogni altra, nell’immagine della fossa comune che, negando l’esequia al singolo, priva il corpo della sua dignità e lo riduce alla sola dimensione biologica. È propriamente questa la dimensione più intollerabile che la morte seriale assume, nel momento in cui viene meno quell’ordine simbolico, comune a ogni società umana, che chiede di prendersi cura dei propri morti. “Le foto dei nostri compagni newyorkesi sepolti a Hart Island sono devastanti per tutti noi. Voglio assicurarmi che tutti sappiano cosa stanno vedendo e cosa sta realmente accadendo a Hart Island.
Ricorda, questi sono esseri umani. Questi sono vicini che abbiamo perso”, ha scritto in un suo Twitt il sindaco di New York Bill de Blasi.
Custoza, 14 aprile 2020
Bibliografia. ECDC, Considerations related to the safe handling of bodies of deceased persons with suspected or confirmed COVID-19, 2020; Gigliola Foschi, Le fotografie del silenzio. Forme inquiete del vedere, Mimesis, Milano, 2015; Emmanuel Levinas, Dio, la morte e il tempo, a cura di Silvano Petrosino, Jaca Book, Milano, 1996.
FRAGILITA’
di Achille Saletti, criminologo e presidente dell’Associazione Saman
Fragilità: soggetto particolarmente vulnerabile. i baby boomers hanno ben presente che tale termine era da abbinarsi, loro bambini, al terrore dei genitori che l’esuberanza tipica dell’infanzia si traducesse nella rottura di qualche cosa di delicato (fragile). Fossero cristalli italiani o le c.d. cineserie, il gioco in casa pareva non coniugabile con le suppellettili che, le case, ornavano. “Stai attento che è fragile”, ha accompagnato il crescere di quella generazione ogni qualvolta, incaricata di piccole incombenze domestiche, aiutavano in casa apparecchiando o spostando qualche cosa. La fragilità, come recitano i classici dizionari che occupano ancora qualche scaffale delle librerie casalinghe è sempre riferita ad oggetti le cui proprietà caratteristiche dei materiali presentano un carico di elasticità molto prossimo a quello di rottura. Il termine fragilità fino agli anni ottanta è termine riferito solo agli oggetti.
Il cammino di soggettivizzazione che in tempi di Coronavirus trova la propria celebrazione in riferimento all’anziano, più soggetto ai rischi di ammalarsi e di morire o al disabile incapace di mantenere le distanze sociali, avviene in concomitanza con l’affermarsi delle teorie sociologiche che fanno capo a Paul-Michel Foucault e nello specifico ai suoi studi sulle istituzioni e non ultime quelle sanitarie. Lo stesso Erving Goffman nei suoi studi sull’istituto di igiene mentale di Washington descrive l’istituzionalizzazione come reazione dei pazienti alle strutture burocratiche di una istituzione ospedaliera.
il lessico e le liturgie delle classi professionali mediche e psichiatriche sono, a partire da questi due pensatori messe sempre più in discussione fino a sfociare nel movimento antipsichiatrico che pone le basi per la rifondazione della stessa scienza medica e della stessa terminologia medica psichiatrica. Si ricordano alcuni tra i ribelli antispichiatrici del tempo, a partire da David Cooper, Thomas Szasz, Franco Basaglia, tutti dediti a riscrivere una nuovo corso della psichiatria a partire dalla sburocratizzazione dei ruoli e dalla progressiva riduzione dei processi di stigmatizzazione. Foucault mette in luce i rischi delle istituzioni totali e delle istituzioni chiuse non solo rispetto ai processi di criminalizzazione ma anche a quelli di sanitarizzazione in cui si paventa una società retta esclusivamente sul paradigma sanitario e sulla relativa terminologia che, come il latino nel medioevo, conferisce a chi la usa una sorta di potere superiore. Nasce, con l’affermazione delle scienze sociali e sociologiche la necessità di rendere meno elitario il lessico delle classi mediche andando a pescare nella terminologia comune.
Fragilità, che ancora nella Garzantina dedicata alla Psicologia ( 2004) curata da Umberto Galimberti, non compare come lemma, è da almeno 20 anni utilizzata da operatori sociali che si sono formati in campo della assistenza e della sociologia, della economia e del diritto quale termine non medico e interdisciplinare per indicare la vulnerabilità di determinati soggetti a rischio di crollo psicologico, fisico, economico, relazionale, sociale. Si ricorre a tale termine anche per intere categorie: fasce deboli o fragili, categoria fragile. Con il corona virus, il termine fragile è abbinato alle condizioni di salute precaria dettata da patologie pregresse o dalla semplice età anagrafica. Ed oggi assistiamo ad un agente patogeno che pare scorrazzare, come certi elefanti in una cristalleria, proprio nei luoghi per eccellenza in cui tali soggetti fragili vivono l’ultima parte della loro vita. Miete vittime in numeri inauditi e – chi tocca -rischia di finire in frantumi.
Milano, 21 aprile 2020
FRONTIERE EUROPEE
di Carlo Saletti, storico e regista teatrale
Se il virus non conosce frontiere, a iniziare da quella zoonotica, ha ristabilito alcune frontiere. Nel continente europeo la pandemia ha, di fatto, portato alla sospensione di Shengen. La convenzione di S., originariamente stipulata tra Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi e dal 1999 integrata nel quadro legislativo dell’Unione Europea, stabilisce l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne e definisce l’istituzione di uno spazio di libera circolazione per i cittadini di 22 dei 27 paesi membri e di 4 paesi fuori UE.
In seno alle misure di lockout nazionali assunte dai paesi europei colpiti dal COVID 19, la maggioranza dei membri dell’Unione ha assunto autonomamente la decisione di bloccare il transito frontaliero ai paesi confinanti, riducendo drasticamente la libera circolazione o subordinandola alla presentazione di certificato medico: Austria nei confronti di Italia (10 marzo), Germania nei confronti di Francia, Svizzera, Austria, Lussemburgo e Danimarca (15 marzo), Spagna nei confronti della Francia (16 marzo) e così via.
Per cercare di rendere omogenee le misure dei singoli paesi membri ed evitare la congestione della circolazione delle merci, in alcuni casi essenziali per gli approvvigionamenti locali in un economia altamente integrata come quella UE, il 16 marzo la Commissione europea ha emanato alcune linee guida: raccomandando agli Stati membri di applicare una restrizione temporanea coordinata di 30 giorni per i viaggi non essenziali da paesi terzi verso l’UE. In seguito all’approvazione da parte dei leader dell’UE, tutti gli Stati membri dell’Unione (ad eccezione dell’Irlanda) e tutti i paesi associati Schengen (Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera) hanno cominciato ad applicare questa restrizione, dalla quali vengono esentati i cittadini dell’UE e dei paesi associati Schengen, così come i loro familiari, nel caso in cui desiderino tornare nei loro paesi di residenza. Nel momento attuale, sono aperte le frontiere interne della UE ai transiti delle merci. A tale scopo la Commissione europea ha espresso i suoi orientamenti sulla attuazione di ‘corsie verdi’ – “valichi di frontiera aperti a tutti i veicoli adibiti al trasporto merci presso i quali i controlli, compresi quelli sanitari,non dovrebbero richiedere più di 15 minuti.
Custoza (VR), 8 aprile 2020
FUNERALE
di Elena Alfonsi, critico d’arte
Nudi, avvolti con gli stessi lenzuoli sui quali giacevano distesi nel letto d’ospedale, intrisi per necessità da soluzioni disinfettanti e, con quelli, deposti dal letto di dolore, divenuto letto di morte, nella bara immediatamente sigillata per il trasferimento al Cimitero, o al Crematorio. Un attimo dopo il decesso, i corpi dei morti causa Covid – 19, sono sottratti allo sguardo del mondo, giunti al fine della vita senza un saluto dei propri cari ne di coloro che avrebbero voluto testimoniare, con la presenza, la commozione per quanto accaduto. La pandemia in corso ha annullato qualsiasi cerimonia in cui poter onorare il defunto. La totale impossibilità di celebrare un rito religioso, o laico, il divieto di accedere più o meno numerosi in chiesa, in casa funeraria, in cimitero, ha obbligato le famiglie a un grande sacrificio di collaborazione con le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria. Anche le imprese funebri hanno dovuto modificare le loro procedure, lasciando spazio all’innovazione di funerali registrati per poter essere visibili in streaming attraverso gli smartphon, con esequie rese solo in Cimitero alla presenza di poche persone, i parenti più stretti, distanziati tra loro, protetti dalle mascherine, senza poter lenire il dolore con i consueti e rinfrancanti abbracci consolatori. Nessuna Messa esequiale, visita a casa del defunto, alla cappella mortuaria di un ospedale. Eppure la comunità si è attivata con modalità fino a ora inusuali per sostenere i parenti colpiti dal lutto. Ora i pensieri di partecipazione, le intenzioni, percorrono strade diverse per un estremo saluto via web attraverso siti o profili social. Una tecnologia che invita al raccoglimento, alla propria preghiera e cerca un sistema per allontanare il più possibile la solitudine.
Il Funerale in Italia non è rappresentato soltanto dalla Messa, la tradizione italiana prevede le esequie all’interno della celebrazione eucaristica, ma in altri paesi il rito funebre è esterno alla Messa. In molti non avendo potuto celebrare un Funerale canonico o laico, sperano di poter posticipare le celebrazioni quando sarà conclusa questa fase di emergenza. In ogni caso parrebbe oggi evidente che in questo tempo si sia recuperata quell’attenzione fondamentale al complesso di cerimonie che accompagnano e sanciscono pubblicamente il passaggio di un corpo da una fase della vita all’altra. Un’immane tragedia che ci ha posto di fronte alla rivalutazione dell’importanza di partecipare a tutti i momenti di un Funerale per poter elaborare il lutto insieme, uniti, indipendentemente dal proprio credo, nell’ultimo incontro di una celebrazione comune di chi ha condiviso la vita con il defunto.
Quando saremo lontano da questo tempo di morte, davanti alle tombe, la solitudine ferita potrà ritrovare il senso della vita nell’incontro e nell’abbraccio di tutti.
Levata di Curtatone (MN), 25 aprile 2020
FUTURO
di Cristina Pozzi, Imprenditrice sociale studiosa di futuri
Futuro è il singolare della parola Futuri e ne rappresenta solo una lieve sfumatura.
Futuri andrebbe dunque pensato, in primis, e pronunciato sempre al plurale al fine di non dimenticarne la caratteristica di libertà e apertura a diverse possibilità.
La capacità di pensare ai futuri è una caratteristica essenziale degli esseri umani e, come tale, è in grado di influenzare enormemente le nostre scelte e le nostre azioni. È infatti una delle chiavi della nostra evoluzione: non saremmo mai stati in grado di cacciare animali feroci molto più grandi di noi, non avremmo mai investito del tempo a seminare in vista di un raccolto domani, non saremmo in grado di interagire con gli altri se non proiettassimo costantemente le nostre aspettative rispetto al loro possibile comportamento.
Il ruolo che i futuri hanno nelle nostre vite è centrale e costante. Ad esempio, ci poniamo domande come: Cosa farò da grande? Che programmi ho per la prossima estate? Che tempo farà domani? Come voteranno gli elettori al referendum? Cosa accadrà dopo l’emergenza della pandemia?
Le risposte che siamo in grado di darci sono critiche perché diventano una guida per il nostro agire e finiscono quindi per influenzarci e influenzare i possibili futuri che abbiamo di fronte.
Potremmo dire che siamo tutti futuristi e che se conosciamo bene la dinamica, abbiamo nelle nostre menti e mani uno strumento potente per pianificare, progettare, costruire artefatti, interagire con gli altri.
Il punto è che alcuni di noi sono più bravi di altri in questa disciplina. Jake Dunagan ha espresso questo concetto così: «We all think about the future, we just don’t do it very well» («Pensiamo tutti al futuro, è che non tutti lo facciamo molto bene»).
Potremmo dire che ci sia un futurismo del senso comune, che potremmo chiamare ingenuo e un futurismo scientifico. Queste due forme sono entrambe utili per il nostro agire quotidiano ma si differenziano per l’approccio e le metodologie.
La prima segue un istinto, una credenza diffusa; la seconda basa le proprie affermazioni su metodi, misurazioni, analisi strutturate, rigorose e condivise da una comunità di studiosi della materia. Il futurismo scientifico è giovane: convenzionalmente nasce agli inizi del XX secolo con la pubblicazione di una serie di saggi di H.G. Wells intitolata Anticipations. Qui l’autore sostiene che sia possibile individuare una scienza umanistica che studia il futuro in modo rigoroso. Da metà del secolo scorso, quando hanno iniziato a svilupparsi a livello accademico, gli studi sui futuri parlavano però ancora troppo al singolare: applicando il calcolo delle probabilità alle previsioni di futuro si riteneva di poter arrivare a una conoscenza sempre più precisa di cosa accadrà negli anni a venire.
Pur restando questo uno dei possibili obiettivi di questi studi, oggi siamo in una fase matura e cosciente dei limiti che abbiamo e del contesto di incertezza nel quale siamo situati. Di conseguenza le diramazioni sono molte e si rivolgono al tema dei futuri con un approccio non solo di previsione ma anche e soprattutto di allenamento e miglioramento delle nostre capacità di reazione di fronte all’impensabile.
Siamo in un periodo storico in cui la riflessione sul futuro è sempre più centrale e ci pone di fronte a dilemmi che riguardano non solo il successo di un’impresa o la strategia di un Paese, ma anche sfide globali per l’umanità come l’emergenza climatica, la crisi del capitalismo e della democrazia, le crescenti diseguaglianze economiche e sociali. Sfide difficili soprattutto considerando che tra molti giovani sono diffusi il pessimismo e un atteggiamento di rinuncia nei confronti del futuro: la speranza è oggi un sentimento in crisi. Più che mai è necessario acquisire una mentalità che ci aiuti a prendere decisioni ponderate considerano le infinite possibilità che il futuro ci offre e questo è possibile diffondendo la competenza della Futures Literacy, l’alfabetizzazione dei futuri. Una competenza fondamentale per comprendere come noi possiamo influenzare i nostri futuri e come i futuri possono influenzarci nelle nostre scelte e nella vita quotidiana.
Verona, 28 giugno 2020