La Dad logora chi non la sa. Dal Covid l’emergenza del sistema-scuola

29 ottobre 2020
Webinar con Licia Landi, Claudio Pardini, Matteo Paoletto, Mara Zimol

Il Covid ha fatto esplodere le contraddizioni di una organizzazione del servizio scolastico inefficiente e in ritardo di anni rispetto alle esigenze culturali e professionali di oggi. Tutti gli equivoci della didattica a distanza: non uno strumento d’emergenza, ma una sfida metodologica, ordinaria, di alto valore professionale. Docenti e dirigenti impreparati, ostili all’innovazione, legati a schemi contrattuali superati. I profe in part-time a 9 ore alla settimana. La formazione deve essere obbligatoria. Un’amministrazione che non pretende dai dipendenti l’applicazione dei suoi stessi ordinamenti

a cura di Alberto Battaggia*

Dicevano: “che sciocchezza i banchi girevoli: i ragazzi ci faranno le corse, gli autoscontro, li sbricioleranno in due settimane…”: niente paura. Alla fine, i milioni di graziosi tavolinetti mobili eroicamente acquistati dalla ministra Azzolina per fronteggiare i condizionamenti del Covid, non li rovinerà proprio nessuno: rimarranno, intonsi, nelle aule vuote. Perché la pandemia, ahinoi, è ben più forte di tutta la retorica sul bel mondo antico che ha infestato, fin dall’inizio, il dibattito sui servizi scolastici in tempi di Coronavirus. La DAD, alla fine, sarà l’unica arma utilizzabile per salvare il salvabile dell’apprendimento scolastico di milioni di ragazzi. Dopo la crisi, sperabilmente, se la scuola saprà cogliere l’occasione, quella digitale, a distanza o meno, sarà una semplice declinazione didattica degli ordinari processi di apprendimento nelle scuole italiane.

I banchi girevoli
La registrazione del webinar (1h16’02”)
Il modello DDI: l’insegnante da solo insegna a distanza

Il “dibattito” di questi mesi, a dire il vero, non è stato un granché, visto che la stragrande maggioranza dei pareri ostentati con grande sicurezza sui media o nei talk-show da filosofi, psicoanalisti, giornalisti di chiara fama, erano privi di qualsiasi competenza specifica. Parole in libertà. Ma si sa: siccome tutti siamo stati a scuola, tutti abbiamo un’opinione sulla scuola. Viviamo un’epoca nella quale le tecnologie stanno comportando una mutazione antropologica, una diversa percezione della realtà in miliardi di persone; un periodo storico nel quale non c’è settore della vita economica, sociale, culturale del mondo evoluto che non sia soggetto a profondissime, strutturali trasformazioni. Come pensare che le questioni pedagogico-didattiche – riguardanti una delle esperienze più complesse dell’essere umano: i processi di apprendimento – siano oggi riducibili a quattro acche in croce trattabili con qualche impressione, il ricordo della propria maestra o una frase retorica sulla sacralità della formazione scolastica?

Il che non sarebbe poi così tragico, se la superficialità con cui si discute di questi temi non fosse la medesima di moltissimi operatori scolastici. Cioè di coloro che dovrebbero saperne di più. A partire da tanti dirigenti scolastici, i quali, lungi dall’essere il volano dei cambiamenti, sono ossessionati dal consenso dei loro docenti, ne assecondano sereni il sereno conservatorismo, astenendosi perfino dal fare loro rispettare le linee guida dei programmi ministeriali (do you know “didattica delle competenze”?). Figuratevi la Dad. Non ne sanno nulla, non la capiscono, non hanno mai fatto un briciolo di formazione, non ci credono. Non ascoltano chi la conosce. Tra i docenti, penalizzati, storicamente, da piani di formazione non sempre all’altezza (anche perché non frequentati), alcuni, tra i più ardimentosi, fanno dell’avversione alle didattiche digitali una nobile causa sulla quale impegnarsi. Dall’indignazione facile, in genere alfieri di mirabolanti attività sempre rigorosamente extracurricolari, magari part-time, rivendicano un ruolo demistificatore individuando nella “didattica digitale” una nuova forma di “sussunzione reale del lavoro al capitale”, come direbbe Marx. Una forma di disumanizzazione, di reificazione dell’essere umano. Altro che Covid!

Tempi moderni
Karl Marx

Insomma, i tempi sono davvero difficili per il pianeta scuola, che si trova ad orbitare, di fatto, ad una velocità che è meno della metà della metà degli altri corpi celesti. Un bel problema. Un enorme problema. Specialmente per i ragazzi più poveri, che dalla scuola dovrebbero essere messi in condizione di affrontare con dignità – ossia con un solido bagaglio di competenze anche digitali apprese a scuola e non dal cellulare – le durezze del mercato.

Per cercare di offrire un contributo ad una riflessione più informata su questi temi, abbiamo allora invitato quattro professionisti, a diverso titolo esperti dell’argomento. Licia Landi è professore a contratto di “Tecnologie didattiche per la formazione” e “Media Education Led” presso l’Università di Verona, oltre ad amministrare il gruppo professionale su FB “Didattica, tecnologie e metodologie”. Matteo Paoletto è docente di Materie letterarie presso l’Istituto Tecnico Pindemonte, protagonista di numerose esperienze didattiche in campo multimediale; Claudio Pardini, dirigente scolastico per molti anni, uno dei pionieri veronesi della didattica digitale, tra gli altri incarichi è attualmente Responsabile del progetto nazionale Problem posing&solving di Torino; Mara Zimol, docente di Matematica e Fisica presso il liceo classico Scipione Maffei, adotta ordinariamente metodologie digitali nella sua didattica.

Licia Landi , professore a contratto di “Tecnologie didattiche per la formzione” e “Media Education Led” presso l’Università di Verona, Amministratrice del gruppo FB “Didattica, tecnologie e metodologie”.
Matteo Paoletto,
docente di Materie letterarie presso l’Istituto Tecnico Pindemonte, protagonista di numerose esperienze didattiche in campo multimediale;
Claudio Pardini,
già dirigente scolastico a Verona, attualmente Responsabile del progetto nazionale Problem posing&solving di Torino;
Mara Zimol,
docente di Matematica e Fisica presso il liceo classico Scipione Maffei, fautrice di attività didattiiche digitali

AB Il lockdown della scorsa primavera ha improvvisamente lanciato il tema della “didattica a distanza” nel dibattito pubblico. Spesso se ne è parlato con una straordinaria superficialità, come se non esistesse una riflessione trentennale in merito molto seria e approfondita. Come mai?

Pardini. Alcune persone parlano perché hanno necessità di comparire, senza avere una cognizione di causa; va anche considerato che si tratta di parlare di Didattica a distanza in un momento in cui questa non è una libera scelta, ma una necessità. Poi, si confonde la didattica a distanza con la didattica digitale, che è  è una cosa completamente diversa. Paradossalmente, la didattica tradizionale, frontale, si presta molto ad essere trasferita a distanza. Il docente entra in classe, spiega, interroga: spesso per dare un voto, più che per capire il livello di apprendimento, privilegiando una valutazione sommativa ad una formativa. Accanto a tanti insegnanti bravissimi che lavorano con passione, molti docenti sono solo preoccupati di arrivare a marzo alle derivate. Se per caso qualcuno si alza e chiede spiegazioni, il professore ripete con santa pazienza le cose che aveva detto prima, con le stesse parole, magari più lentamente. Questo modello si può facilmente applicare a distanza, grazie agli strumenti di cui disponiamo. Se si fa didattica a distanza così, non cambia nulla, nel rapporto con lo studente. La didattica digitale è tutta un’altra cosa. Qui ci riferiamo a processi di apprendimento che si realizzano modificando le tradizionali metodologie basate sulla centralità del docente a favore di altre che promuovono il ruolo attivo dello studente per l’acquisizione di competenze, più che di contenuti. Un libri elettronico non si consulta come un libro stampato: l’approccio metodologico è diverso.

Claudio Pardini

“Alcune persone parlano perché hanno necessità di comparire, senza avere una cognizione di causa”

Mara Zimol

“..all’interno della scuola e non solo nella scuola che c’è tanta avversione nei confronti del cambiamento..”

Matteo Paoletto

“Negli Istituti Tecnici dove sono stato,  ho riscontrato resistenze molto forti e spesso di tipo ideologico”

AB. Sui media, molti intellettuali o presunti tali, spesso considerati un riferimento rispetto ad un certo universo di nobili valori sociali e culturali, hanno manifestato in merito un atteggiamento che suona pre-moderno, antiscientifico, reazionario. Non trovate questo atteggiamento un grave limite nazionale della nostra intellettualità diffusa?

Zimol.  Sono perfettamente d’accordo; all’interno della scuola e non solo nella scuola che c’è tanta avversione nei confronti del cambiamento e di ciò che non si conosce;  e quindi questo modo di parlare contro la didattica a distanza rappresenta un sottoinsieme del modo in cui si parla di ciò che non si conosce e non si sa impiegare. Non essendo disponibile a mettermi in gioco, critico tutto quello che ha a che fare con esso.

Paoletto. Prima che negli istituti tecnici, io ho insegnato in diversi istituti professionali e devo dire che in questo tipo di scuole, dove c’è un’utenza  molto più restia all’apprendimento, ho riscontrato più disponibilità. O almeno la curiosità, la disponibilità a mettersi in gioco con un collega per cercare di motivare alunni che,  se non riuscissero a seguire quel tipo di percorso, sarebbero completamente persi, nel senso che non riuscirebbero a conseguire un titolo di studio. Invece, negli Istituti Tecnici dove sono stato,  ho riscontrato resistenze molto forti e spesso di tipo ideologico, dovute alla mancanza di volontà di prendere in considerazione altre metodologie, considerando come unico modo di fare scuola la lezione frontale. Ora sento dire che la DAD non è scuola, che se c’è la DAD i ragazzi non possono apprendere…: sono affermazioni che nascono non solo da  una mancanza di conoscenza, ma anche da una mancanza di volontà di avvicinarsi a qualcosa di nuovo.

“DAD”, “DDI”…: professoressa Landi, ci aiuta a districarci tra questi acronimi?

Landi. L’atteggiamento che avete presentato è diffusissimo a tutti i livelli, sia nelle scuole, sia nell’università, sia, come si diceva, in persone che possiamo definire “intellettuali”, ma che non hanno avuto la voglia o l’occasione di confrontarsi con una realtà che è meritevole di essere approfondita e conosciuta. Invece si dà per scontato il contesto digitale in cui viviamo ma senza approfondirlo. Lo si riduce allo smartphone, al computer, ai videogiochi (che pure hanno una problematicità anche in termini di apprendimento). E’ vero che il digitale è esploso quest’anno a causa dell’emergenza, ma il Ministero avrebbe dovuto essere molto più chiaro.  
“DAD” è acronimo per “didattica a distanza”, ma l’espressione è stata intesa come  semplice trasposizione di videolezioni on line, riproducendo dinamiche pedagogiche ordinarie. Nella gran parte delle aule scolastiche c’è una lezione frontale, anche piuttosto noiosa e ripetitiva, molto legata al libro di testo;  e dall’altra parte ragazzi, a casa, che hanno cercato di adattarsi anche tecnologicamente, perché le infrastrutture tecnologiche non erano all’altezza di questo passaggio. E’ emerso il grande problema della valutazione: punto estremamente delicato dell’insegnamento, che è stata concepita, anche in queste circostanze, in senso sommativo. La grande occasione di imparare a valutare formativamente, come esige la DAD, non è stata colta.

DDI è l’acronimo utilizzato dal MIUR nella seconda parte dell’anno, nelle linee guida diffuse in agosto, che avrebbero dovuto sciogliere alcuni nodi ma non l’hanno fatto.  Qui “integrata” significa “complementare” rispetto alla didattica in presenza. Questa complementarietà, a mio parere molto poco produttiva, comporta di avere una parte degli studenti in aula e un’altra parte degli studenti collegati in contemporanea. Possiamo immaginare le difficoltà del docente, già condizionato in aula dai protocolli di distanziamento che impediscono, ad esempio, attività collaborative. Su questa impostazione si è discusso sull’opportunità di svolgere anche attività didattiche asincrone, in tempo differito. Si sono fornite anche delle indicazioni sul momento in cui questa parte digitale debba diventare preminente. Oggi siamo al 75 per cento delle ore a distanza, per quanto riguarda la scuola secondaria di secondo grado; ma ieri la Puglia è passata al 100 per cento. Molte scuole tuttavia non si sono attivate e i ragazzi hanno ricevuto un insegnamento parziale.

Licia Landi

“DAD” è acronimo per “didattica a distanza”, ma l’espressione è stata intesa come  semplice trasposizione di videolezioni on line, riproducendo dinamiche pedagogiche ordinarie

“La grande occasione di imparare a valutare formativamente, come esige la DAD, non è stata colta”

AB. Considerando le vostre esperienze, l’atteggiamento dei colleghi nei confronti di queste metodologie, risente anche del tipo di formazione culturale scientifica o umanistica?

Zimol. A mio avviso l’atteggiamento riflette più la predisposizione personale, la formazione e l’attitudine ad approcciarsi con il nuovo; a provare curiosità e voglia di imparare; a continuare a mettersi in gioco nella propria formazione e nella propria professionalità.  Quando ci si mette in gioco non è detto che sempre vada tutto bene:  si prova: se l’esperimento funziona si va avanti,  altrimenti si può tornare anche sui propri passi e fare degli altri tentativi. E’ una questione di mentalità individuale, più che di versante culturale di appartenenza.  

Paoletto. Concordo. E’ vero che i docenti di formazione scientifica hanno spesso più confidenza dei colleghi umanisti con gli strumenti informatici; eppure le discipline insegnate da costoro hanno anche più potenzialità ad essere trattate dal punto di vista didattico con metodologie innovative. Penso perciò che in molti docenti di discipline umanistiche ci sia proprio un pregiudizio di fondo.

Claudio Pardini

“…la cosa più importante è  la soddisfazione degli insegnanti, contenti di avere costituito una comunità di apprendimento e di insegnamento…”

“A qualsiasi livello di responsabilità, se uno è solamente interessato a salvaguardarsi, non fa niente, sta lì, cerca di sopravvivere. Se invece rischia almeno un po’,  allora magari riesce a a fare qualche cosa di diverso”.

AB. Colpisce che costoro alla fine difendano un modello didattico obsoleto; che non riescano a pensare ad una scuola diversa da quella che loro hanno frequentato. Eppure è da almeno 30 anni che nel dibattito pedagogico-didattico internazionale si discute facendo riferimento ad una concezione costruttivistica del sapere, dalla quale discendono didattiche centrate sul discente, sulla costruzione del proprio sapere, sulla collaborazione, sulla laboratorialità… Il modello della ricerca scientifica. Un modello che si può realisticamente applicare proprio grazie all’utilizzo metodologicamente corretto delle tecnologie, alla connessione a banche dati e infinite risorse culturali da concettualizzare, elaborare criticamente… Non si rendono conto, costoro, di riproporre un modello pedagogico didattico, frontale ed autoritario, che era già stato contestato durissimamente negli anni 70-80. Forse da loro stessi.  

Pardini. Sì, ma io torno a dire che in realtà il problema drammatico della chiusura delle scuole è non tanto nella diversa metodologia applicabile, che peraltro ancora in pochi conoscono, ma nella situazione che porta soprattutto gli studenti più fragili ad avere un contatto molto più molto più lento con quello che in alcuni casi rappresenta una delle poche risorse che hanno a disposizione: la scuola. Questo è il dramma reale. A scuola non si va solo per imparare la matematica, ma per tantissime cose, per diventare cittadini, innanzitutto. Poi c’è il problema delle nuove metodologie Noi purtroppo lo sappiamo,  le cose bisogna ripeterle per anni e ci troviamo a dire “lo dicevamo 20 anni fa”…. Però le cose vanno anche avanti.  Io lavoro in un progetto di formazione ed innovazione, che si chiama “Problem posing&solving”, iniziato nel 2012, che attualmente  a marzo 2020 contava 1960 docenti in piattaforma,  2080 classi e circa 50 mila studenti. Sono numeri significativi. E la cosa più importante è  la soddisfazione degli insegnanti, contenti di avere costituito una comunità di apprendimento e di insegnamento dove si ritrovano e scrivono in qualsiasi ora del momento. Il supporto tecnologico permette loro di discutere come affrontare un problema, una difficoltà, e così via. E lo stesso fanno gli studenti. I docenti hanno bisogno anche di essere supportati:  se si trovano catapultati in una certa attività senza mai esserne stati coinvolti o senza essersi mai interessati a riprodurre a casa qualche cosa che facevano in un altro contesto è ovvio che non sanno come fare. Magari è anche possibile fare un po’ di formazione in questa in questa direzione.

AB. Quanti dirigenti scolastici, in questi anni hanno veramente creduto in una scuola che funzionasse anche così? Nelle organizzazioni, chi innova destabilizza. Nella mia esperienza ho constatato che dai dirigenti scolastici chi destabilizza viene vissuto più come problema che come risorsa. Lei cosa ne pensa?

Pardini. E’ verissimo. A qualsiasi livello di responsabilità, se uno è solamente interessato a salvaguardarsi, non fa niente, sta lì, cerca di sopravvivere. Se invece rischia almeno un po’,  allora magari riesce a a fare qualche cosa di diverso. Le differenze di atteggiamento, come per i docenti, dipendono dal carattere, più che dal tipo di formazione culturale umanistica o scientifica. Ho conosciuto persone che, con le loro 10 slide, andavano avanti 10 anni….  Credo che abbiamo grande bisogno di persone disponibili a sperimentare, a tutti i livelli, dirigenziali e docenti.

AB. Non si può negare che in questi vent’anni il MIUR abbia investito  notevoli risorse per promuovere la didattica digitale o qualcosa che assomigliasse ad essa. Gli investimenti fatti sono stati corretti? Hanno soddisfatto le esigenze infrastrutturali e di formazione necessarie per promuovere una scuola innovativa nel nostro paese?

Landi. Il  problema non risale a 20 anni fa ma a 25 anni fa, quando nacque il “Piano di sviluppo delle tecnologie didattiche“. Il documento fissava alcuni principi che se fossero stati seguiti, in questi 25 anni avrebbero portato la scuola italiana all’avanguardia in Europa. Si invitava ad una riflessione metodologica sulla didattica supportata dalla tecnologia che, se si fosse diffusa, avrebbe avvicinato la nostra scuola a quella di Paesi che oggi guidano questo processo di cambiamento e di innovazione didattica. Da allora ad oggi di soldi ne sono stati investiti tanti. Ma si cominciò subito male. Ricordo molte scuole che chiesero i fondi per allestire le aule informatiche per poi lasciare i computer negli scatoloni; altre che non hanno mai attivato veramente un utilizzo riflessivo dei computer che pure alloggiavano… Furono fatti grandi errori nella formazione dei docenti, che non tenevano conto delle loro esigenze. Ad erogare la formazione erano chiamati dei tecnici, che spiegavano esattamente come funzionava un computer o come si utilizzava un software, al posto che spiegare come utilizzarli in modo didatticamente efficace. Un altro piano molto importante è stato quello FOR TIC del 2002 e 2003. Molti docenti furono formati e in quel passaggio si cominciò a curare gli aspetti più importanti, ovvero quello dei processi di apprendimento e insegnamento.  Poi questa spinta si è attenuata e per poi riprendersi e arrivare al 2015, col Piano Nazionale della Scuola digitale. Ancora tanti investimenti infrastrutturali ma un piano veramente organizzato di formazione non è stato organizzato. Le competenze tecniche spicciole si imparano con i tutorial; ai docenti servono invece le competenze per incidere sui processi di apprendimento e insegnamento.  L’azione 14 di questi piano, praticamente ignorata da tutti, afferma con chiarezza che il digitale può avere il suo sviluppo adeguato solo mediante corretti percorsi didattici e piani pedagogici.

Licia Landi

“Le competenze tecniche spicciole si imparano con i tutorial; ai docenti servono invece le competenze per incidere sui processi di apprendimento e insegnamento”.

AB. La ricezione della legge sulla “Buona scuola” del governo Renzi rappresenta un capitolo sorprendente delle vicende politiche scolastiche degli ultimi anni. Il Piano Nazionale Digitale è un documento di alto livello,  che imposta in maniera corretta, dato il contesto, tutta la materia. Fra le altre cose ha introdotto nelle scuole una nuova figura di sistema, l’animatore digitale. Bene. Gli animatori digitali che hanno avuto più successo, almeno sotto il profilo del consenso, sono stati quelli tutti piegati sulle questioni tecnologiche, che spiegavano come funzionava questo software o quell’altro. Non ci si è resi conto che quello di cui abbisognano le scuole è una strategia pedagogico-didattica, ossia un Piano digitale di istituto  in grado di individuare le modalità metodologiche attraverso le quali utilizzare in maniera efficace questi strumenti.  Ancora una volta, invece, si è pensato che l’innovazione didattica fosse un fatto di prodotto non di processo. Un equivoco terribile. E’ stato così anche nelle vostre esperienze?

Paoletto. Per me sì. Ho conosciuto animatori digitali, tra l’altro spesso isolati nell’ambiente scolastico, che non sono riusciti nemmeno a formare un team; oppure si sono formati team di poche persone più interessati ad aspetti tecnici, ad utilizzare un dispositivo al posto di un altro, che a discutere di metodologie. Per avere una strategia di istituto, occorrerebbe una formazione specifica sia per gli animatori, sul piano pedagogico-didattico, sia nei dirigenti. Molti dirigenti che hanno una certa età conoscono poco il digitale o non sanno valutarne le potenzialità e il tipo di varietà di proposte didattiche esistenti. Ma non incidono, non riescono ad elaborare una strategia. Secondo me l’unica soluzione sarebbe una formazione obbligatoria a tutti i livelli su questi temi.

Mara Zimol. Nella mia esperienza non ho conosciuto tanti animatori digitali da poterli confrontare. L’animatore digitale della mia scuola, il dirigente scolastico stesso, nel team digitale del quale faccio parte, promuovono una innovazione sia di prodotto che di processo. Che dopo ci siano alcune avversioni e alcuni ostacoli è un fatto oggettivo. Di certo è che in seguito al lockdown della scorsa primavera, molti colleghi  si sono resi conto che non aver partecipato alle azioni formative precedenti è stato per loro penalizzante, hanno cercato di ricorrere ai ripari e di formarsi in breve tempo. Abbiamo fatto un sacco di attività on-line proprio di formazione e che continuiamo a fare tutt’ora. Sono contraria alla obbligatorietà della formazione, che vedo come un fallimento, perché non si può costringere una persona a fare qualcosa in cui non crede. Si rischia il fallimento dell’azione formativa, risorse impiegate comprese.

AB. In certi categorie professionali l’obbligatorietà della formazione è la regola. Io, ad esempio, sono un giornalista: se ogni tre anni non colleziono 60 crediti vengo espulso dall’Ordine.

Pardini. Va anche detto che l’amministrazione, spesso, non chiede conto delle cose che le leggi prevedono. Sono anni che si parla di “competenze”. Chi è che fa veramente una certificazione delle competenze? Dobbiamo sempre aspettare che le cose maturino spontaneamente negli anni o ci sono anche obblighi di contratto e di leggi?  L’amministrazione dovrebbe chiedere conto di ciò che si è deciso di fare.

Landi. Nelle altre professioni la formazione è obbligatoria. Del resto i cambiamenti sono talmente veloci che pensare di non formarsi equivale a sottrarsi dai ritmi del mondo E questo vale anche per le proprie discipline, perché la riflessione epistemologica disciplinare va comunque avanti. Vale anche per un docente di discipline letterarie: non possiamo pensare di mantenere gli stessi paradigmi di giudizio che appartenevano ai tempi in cui ci siamo formati all’università. Il digitale è parte integrante della nostra società ed è entrato anche nelle linee di indirizzo delle singole discipline. Non ci possiamo permettere di dire “mi piace, non mi piace, mi sottraggo non mi sottraggo”: occuparsene, aggiornarsi è un obbligo prima di tutto etico. Una grave scelta è stata quella di chiudere le SSIS, una delle iniziative importanti che riguardavano la formazione dei docenti, che fin dalla loro costituzione, nel 1999, prevedevano corsi di tecnologie didattiche ed educative.

Loredana Anania

“..se in un consiglio di classe c’è un docente che lavora in un certo modo, ma non è supportato non dico da tutta l’istituzione, ma neanche dal consiglio di classe, viene percepito come un docente eccentrico, bizzarro, di cui magari si riconoscono delle virtù, ma che appare sostanzialmente estraneo al sistema”.

AB. Ci sta seguendo un’altra insegnante: prof.ssa Anania, vuole portarci la sua testimonianza?

Loredana. Io sono un insegnante di italiano e latino di un liceo scientifico calabrese, di Vibo Valentia e posso portare la mia esperienza, che è di solitudine ad affrontare una situazione di Didattica digitale integrata di Didattica a distanza,  perché manca una formazione metodologica. Gli investimenti sono tutti finalizzati all’acquisizione di strumenti e la formazione poi è volta sulla strumentazione stessa e manca la consapevolezza che digitale vuol dire cambiare la metodologia. Durante il lockdown della scorsa primavera, abbiamo contrastato molti colleghi per i quali la didattica a distanza era la trasposizione della lezione frontale attraverso il monitor. E’ stata una battaglia che nella maggior parte dei casi è stata persa. Quei pochi solitari che cercano di andare in una certa direzione, si autoformano; forse io in genere non sono per la formazione obbligatoria, ma in alcuni casi sì. Nell’offerta formativa gli ambiti territoriali si orientano in maniera forse troppo autonomamente, per cui ci sono delle isole felici, che hanno puntato sulla formazione metodologica; e altre no. Ma la maggior parte lavora sulla formazione tecnica, forse perché i formatori di questo tipo sono più numerosi o forse perché manca quella forma mentis strategica di cui parlavate. E dire che a volte la tecnologia aiuta a raggiungere quegli studenti fragili che in genere ci rimangono indietro nella lezione frontale. Anche le famiglie e gli studenti non sono abituati a fare una didattica diversa,  per cui se in un consiglio di classe c’è un docente che lavora in un certo modo, ma non è supportato non dico da tutta l’istituzione, ma neanche dal consiglio di classe, viene percepito come un docente eccentrico, bizzarro, di cui magari si riconoscono delle virtù, ma che appare sostanzialmente estraneo al sistema.

Pardini.  C’è un problema anche di contratto di lavoro. Io ho citato prima le “competenze”: ma per parlare di competenze occorre anche incontrarsi, parlare… Non è possibile che ci sia l’insegnante che alle 10 è già andato via finito l’orario, quell’altro che invece arriva alle 11 e uno invece che nel frattempo è diventato un part-time e viene, per alcune ore, due giorni alla settimana.

AB. Il versante contrattuale richiamato dal preside Pardini non è meno nobile della pedagogia: al contrario,  è fondamentale. E’ evidente che oggi, il sistema scolastico nazionale resiste ad ogni innovazione, perpetuando un paradigma di organizzazione del lavoro che è assurdo, in una scuola che vuole essere all’altezza dei  tempi. Come fa un dirigente scolastico ad avere un’influenza profonda sul modo di operare dell’istituto quando le persone sono fisicamente poco presenti o reperibili?  Quando non si può chiedere un grammo di più della di quello che è fissato fiscalmente dal contratto?
Sarà un tema, quello dell’ordinamento anche contrattuale della funzione dirigente e della professione docente che tratteremo presto.

*Alberto Battaggia, già insegnante di lettere nelle scuole superiori, svolge attività di formazione per i docenti nel campo della didattica digitale da due decenni. Perfezionato in Multimedialità e didattica, ha fatto parte per anni dello staff di progettisti e docenti nei corsi on line postlaurea del prof. Luciano Galliani dell’Università di Padova. E’ stato professore a contratto di Tecnologie didattiche presso la SSiS nelle Università di Venezia, Padova e Verona. E’ direttore responsabile della rivista Iperstoria.

2 commenti su “La Dad logora chi non la sa. Dal Covid l’emergenza del sistema-scuola

  1. Complimenti !!!!!
    L’ importante è amare la scuola e amare gli studenti ! Certamente la didattica in presenza è l’ ideale in una corrispondenza fluida di anime, cuori, menti….ma allungando le radici anche se non si è in presenza, ci si sente ugualmente presenti gli uni con gli altri in una comunione forse ancora più profonda.

  2. Grazie! Molto interessante e davvero condivido molti aspetti trattati. Da docente che si mette in gioco posso dire che in questa transizione ancora molti problemi vengono dalla ‘preoccupazione’ per la valutazione che diventa una vera ossessione. E dal tempo: c’è tanta burocrazia nella scuola e a volte ci si ritrova a progettare ad ore improbabili, sabati e domeniche inclusi… Con la speranza di creare qualcosa che funzioni didatticamente. Ma è una bellissima esperienza comunque, personalmente la accolgo. Capisco che alcuni abbiano paura di uscire dai confini in cui si sentono sicuri, però vedo che con piccoli passi ci si può pian piano avvicinare a una attività didattica che funziona molto bene.

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